MA IN quale democrazia abbiamo vissuto in questi ultimi anni? Se lo chiedono probabilmente i cittadini americani, tedeschi e francesi, non se lo domandano gli italiani. Il Datagate, con lo spionaggio americano che attraverso la National Security Agency esonda dai confini della sicurezza attaccando il mondo degli affari e della finanza europea, infiltra le ambasciate di un Paese alleato, fino ad intercettare il cellulare di Angela Merkel, esplode in mezzo all’Occidente spezzandolo in due come non erano riusciti a fare né la crisi né la guerra fredda incrinando la sua stessa identità morale.
Non è infatti lo spionaggio interno ad un’alleanza l’elemento più grave. È che tutto questo sia maturato nel grembo del mondo occidentale, che dopo aver perso con l’Urss il nemico ereditario che lo definiva per differenza, e non avendo ancora trovato un vero sfidante nei competitor emergenti in Asia e Sudamerica, aveva in questa fase l’occasione per ritrovare una compiuta identità e una piena coscienza di sé come la terra della democrazia dei diritti e della democrazia delle istituzioni. Proprio questa presunzione identitaria – in nome della quale si è attraversato il Novecento, e oggi si risponde alle sfide del terrorismo internazionale – viene incrinata dall’abuso di autorità e dall’abuso di sovranità che gli Usa di Obama realizzano attraverso l’uso improprio dello spionaggio della Nsa.
Non vale il movente della sicurezza, che certamente dopo l’11 settembre spinge la Casa Bianca e le sue agenzie ad uno sforzo eccezionale di prevenzione e di deterrenza a tutela del Paese attaccato per la prima volta nelle Torri e nel Pentagono, uno sforzo che vista la globalità della minaccia non può che essere universale e senza confini. E tuttavia, come abbiamo sempre detto, vivere in democrazia obbliga terribilmente. Perché se le democrazie hanno il dovere – esercitando come Stati il monopolio della forza – di garantire la sicurezza nazionale, hanno anche la necessità concorrente di fare questo rimanendo se stesse, senza sfigurarsi nei principi fondamentali fino ad assomigliare alla caricatura deformante che ne fa il terrorismo.
La coppia diritti-sicurezza, oppure libertà e forza, scricchiola sempre nei tempi di crisi, sotto attacco. Dentro la legittima paura, di cui sia lo Stato democratico che la politica devono tener conto, e dentro l’ossessione securitaria (che è un’ideologizzazione della paura) il cittadino isolato nella solitudine repubblicana del contemporaneo chiede protezione prima di tutto, il che non è molto diverso dal chiederla ad ogni costo, anche con sistemi da “Dirty Hands”, come dice Michael Walzer, perché sporcano le mani dei governi. Ma la democrazia deve credere che è possibile rispondere all’aspettativa di sicurezza conservando anche nei tempi di queste guerre bianche della globalizzazione i principi che si professano nei tempi di pace e di tranquillità.
Il modo per farlo è ancorare la funzione di governo alla regola, così da evitare abusi di sovranità: regola costituzionale all’interno, regola di diritto internazionale all’esterno. Dunque regola democratica. Che si basa su un principio: la democrazia non può essere indifferente al percorso, alle procedure e agli strumenti che utilizza per raggiungere i suoi fini, perché non contano solo questi ultimi, e l’efficacia per raggiungerli. No. La democrazia al contrario deve continuamente vigilare sulla compatibilità dei mezzi rispetto ai fini, sulla coerenza dei mezzi con i principi che professa.
Solo così, peraltro, il processo democratico di decisione può venire “controllato” dai cittadini, e non viene confiscato e oscurato nei suoi passaggi- chiave, per mostrare alla pubblica opinione soltanto il risultato finale, ottenuto chissà come, e con mezzi che vengono sottratti al giudizio, come se non ne facessero parte. La democrazia pretende che anche le sue fragilità, le sue debolezze, vengano denunciate, evidenziate e “curate” alla luce del sole perché soltanto in quella luce vive e sopravvive il concetto di cittadinanza. E perché l’opinione pubblica è intrinseca all’identità dell’Occidente, e quell’opinione chiede conoscenza e trasparenza, mentre non accetta che la decisione si sposti in luoghi segreti, oscuri e separati. In buona sostanza, in democrazia il sovrano è legittimo finché è democratico, cioè consapevole di essere soggetto alla regola. Altrimenti, deve rendere conto dell’abuso di sovranità e di potere. Proprio questo sta accadendo tra l’Europa e Obama.
La stessa cosa non sta accadendo in Italia. Qui l’inchiesta giudiziaria di Napoli e la decisione del Gup di rinviare a giudizio per corruzione Berlusconi e il suo “uomo di Stato in incognito”, cioè il faccendiere Lavitola, per aver “comperato” con tre milioni un senatore nel 2008, convincendolo ad abbandonare la maggioranza guidata da Romano Prodi mettendola in crisi, svela qualcosa di più di un abuso di potere. Rivela una violenza alla democrazia, che ha modificato la rappresentanza popolare decisa dal voto dei cittadini, deformando il rapporto tra maggioranza e opposizione e deviando il corso della legislatura. Tutto è avvenuto nell’ombra, in quanto l’“Operazione Libertà”, come la chiamava la fantasia di Arcore, era inconfessabile in pubblico. E si capisce perché. Questa operazione infatti si fonda su uno dei cardini dell’anomalia berlusconiana, quello strapotere economico (costituito anche sui 270 milioni di fondi neri portati alla luce dalla sentenza definitiva di condanna nel processo Mediaset) che consente ad un leader politico di alterare un mercato delicatissimo come quello del consenso, già adulterato dallo strapotere mediatico, che squilibra a destra ogni campagna elettorale, nell’indifferenza di tutti.
Ora, qui con ogni evidenza non c’è nessuna scusa che chiami in causa la sicurezza nazionale: se mai, quella personale del leader che visto ciò che sa di se stesso, cerca riparo nell’accumulo improprio di potere politico per costruirsi uno scudo istituzionale illegittimo. Né si può dire che la maggioranza di sinistra in quegli anni era così gracile e incerta che sarebbe morta da sola: è possibile, ma in democrazia c’è una differenza capitale tra un normale processo fisiologico di deperimento – che fa comunque parte dell’autonomia politica e parlamentare – e un assassinio di governo per avvelenamento, che fa parte invece dell’eccezionalità criminale.
Naturalmente il processo avrà il suo corso. Ma intanto c’è non solo il rinvio a giudizio di un ex Premier per un reato infamante, c’è la condanna per patteggiamento del parlamentare corrotto, che è diventato il principale e pubblico accusatore, e c’è la lettera dello “statista incognito”, cioè Lavitola, che presenta il conto ricattatorio delle sue prestazioni, enumerandole e magnificandole.
Quest’ultima vergogna nazionale è talmente clamorosa che sta facendo traboccare il vaso fragile della maggioranza e induce in queste ore un Berlusconi traballante a pensare allo strappo di governo e alla crisi, se avrà ancora i numeri. Ma il punto non è nemmeno più questo. Perché non si può aspettare che sia Berlusconi a valutare la gravità di quanto emerge a Napoli, senza che la politica, le istituzioni, i suoi antagonisti culturali e storici (cioè la sinistra) diano un nome a quanto sta emergendo e diano un giudizio. Senza che si domandino – incredibilmente – in quale Paese abbiamo vissuto in questi anni. Senza che incalzino il protagonista di questa vicenda chiedendogli di spiegare al Paese come può restare in scena – politicamente, non giudiziariamente – con un’accusa così vergognosa e circostanziata. Senza trarre le conseguenze davanti ai cittadini di una cultura politica che comporta questa pratica, la quale sconta un abuso permanente, nel segno della dismisura come fonte di potere illegittimo e dell’onnipotenza che si crede impunita.
Se le larghe intese devono silenziare la libera coscienza delle istituzioni e dei partiti, allora la stabilità diventa una ragnatela, non una risorsa. Non si tratta di anticipare sentenze. Basta molto meno per pretendere un rendiconto politico. Basterebbe una nota d’agenzia con poche parole: «Oggi il presidente del Consiglio ha avuto una conversazione telefonica con il professor Romano Prodi». Persino questo Paese capirebbe.
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