Ripensando il lavoro, ripensando i diritti

08 Aprile 2013

Dopo il successo del primo modulo, dedicato alla comprensione delle nuove sfide che il mondo del lavoro sta affrontando nel contesto globalizzato, con uno sguardo alle problematiche della crisi dell’occupazione e della contrattazione collettiva, il secondo weekend della Scuola di Pavia “Nella trappola della crisi, il lavoro come questione sociale”, giunta alla sua VII edizione, è stato interamente dedicato all’analisi delle politiche economiche e sociali del lavoro. Guarda le foto

Dopo il successo del primo modulo, dedicato alla comprensione delle nuove sfide che il mondo del lavoro sta affrontando nel contesto globalizzato, con uno sguardo alle problematiche della crisi dell’occupazione e della contrattazione collettiva, il secondo weekend della Scuola di Pavia “Nella trappola della crisi, il lavoro come questione sociale”, giunta alla sua VII edizione, è stato interamente dedicato all’analisi delle politiche economiche e sociali del lavoro.
Si deve a Salvatore Veca, direttore delle Scuole di Libertà e Giustizia, la scelta dell’approfondimento di un tema così complesso e attuale: in questi due pieni giorni di studio, riflessione e discussione il lavoro, indiscusso protagonista del dibattito politico ed economico, è stato “scomposto” alla luce di una prospettiva politica. Quali le politiche pubbliche e sociali del lavoro per uscire dalla crisi?
La scuola ha aperto con l’intervento del prof. Giorgio Lunghini, accademico dei Lincei e professore ordinario di Economia politica allo IUSS di Pavia. Lunghini ha esposto, con la chiarezza propria dei grandi economisti, la configurazione del modello del mercato del lavoro nella prevalente teoria neoclassica e ne ha contestato i fondamenti: in un’economia monetaria di produzione, in cui la moneta svolge il ruolo di variabile incidente sul funzionamento del sistema e si configura come tutt’altro che neutrale, il modello più adatto a spiegare il funzionamento del mercato del lavoro è quello keynesiano. Lunghini, avvalendosi di Keynes, analizza la grave situazione di crisi in cui verte il nostro Paese. La disoccupazione è al 17%, e supera di gran lunga il tasso di disoccupazione “fisiologica” che i neoclassici prospettano, il PIL è in calo, i redditi sono ai minimi storici e la produzione è in diminuzione. L’Italia sta attraversando, spiega Lunghini, un periodo di forte depressione: a differenza di una recessione, che si caratterizza per la ciclicità, la depressione porta inevitabilmente ad uno stallo dell’economia.
Quali i provvedimenti da attuare? A questo interrogativo non può che rispondere la forza della politica, che mai come in questi anni è mancata in Italia.
Lunghini appoggia la teoria keynesiana della redistribuzione: per il tramite di strumenti redistributivi sarebbe necessario uno spostamento di parte del reddito dai ricchi ai poveri con una conseguente crescita della domanda di beni, quindi dei consumi, per il rilancio dell’economia e della crescita. Lunghini sottolinea inoltre la necessità di un’eutanasia del rentier, della figura del finanziere speculatore, ed invoca la socializzazione degli investimenti come ricetta vincente.
Segue l’intervento del prof. Marco Leonardi, docente di Economia politica presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università Statale di Milano, che rivolge la sua attenzione alla disoccupazione giovanile e alle sue cause: si tratta di un vero e proprio allarme sociale. La disoccupazione giovanile raggiunge in Italia livelli record, con un rapporto di 3 a 1 di giovani disoccupati rispetto ai disoccupati over 40. L’origine di questo grave primato italiano è dovuto, a parer del prof. Leonardi, principalmente a due fattori: la diffusione di contratti a termine e di tipologie contrattuali che hanno messo in discussione il modello monolitico del contratto a tempo indeterminato, e la riforma dell’Università che ha allungato il periodo di studio diminuendo la partecipazione dei giovani laureati.
Sarebbe forse auspicabile, come accade in Germania, la creazione diretta di posti di lavoro affiancata da una minore spesa per la formazione? Il tema è stato affrontato nel ricco dibattito, durante il quale l’eterogenea platea degli allievi della scuola ha snocciolato altre spinose questioni economiche, richiedendo l’intervento delle competenze dei relatori, che ne hanno chiarito le connessioni. Come conciliare le esigenze di contenimento della spesa con le esigenze dello Stato sociale? Come richiamare investimenti stranieri? Quanto e con quali strumenti può la politica incidere sul sistema bancario? Quale il ruolo dell’Europa?
Le medesime ed altre tematiche hanno formato oggetto degli interventi pomeridiani delle relatrici Chiara Saraceno ed Enrica Chiappero.
La nota sociologa ha in primis chiarito la natura delle politiche economiche e sociali del lavoro ed il loro reciproco rapporto in un contesto democratico, quello italiano, le cui prescrizioni costituzionali chiaramente mettono in luce gli obblighi del legislatore nella direzione della garanzia degli elementari diritti sociali. Possono le politiche economiche non essere politiche sociali? Chiara Saraceno ha illustrato i più comuni strumenti di cui il legislatore può avvalersi nell’attuazione di politiche attive del lavoro, quali i sussidi diretti ed indiretti all’occupazione dei soggetti sociali svantaggiati e le forme di integrazione di reddito dei soggetti lavoratori, aprendo poi una finestra sulla crisi del sistema statale di assistenza sociale. La relatrice ha costantemente richiamato studi e dati di origine europea, che sottolineano gli enormi ritardi del sistema-Italia in materia di politiche sociali ed assistenziali, e rivolto una critica alle scoordinate e maldestre ricette della politica italiana, che non è stata in grado di comprendere che il problema del mercato del lavoro è innanzitutto un problema di domanda e non solo di offerta.
La miopia del legislatore ha formato oggetto anche dell’intervento della prof. Enrica Chiappero, docente straordinario di Politica Economica presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Pavia. La prof. Chiappero ha sottolineato la inscindibile connessione tra le politiche di welfare e l’impostazione della relazione tra Stato e mercato, richiamando le recenti prese di posizione di autorevoli economisti quali Stiglitz e Fitoussi, critici nei confronti del neoliberismo e delle politiche europee di contenimento della spesa.
La prof. Chiappero ha poi esposto i modelli di welfare secondario e di welfare sussidiario, illustrando gli strumenti dei quali tali modelli si avvalgono per far fronte alle esigenze dello Stato sociale. Il dibattito tra le relatrici, incoraggiato dagli interrogativi degli allievi, è stato ricco di spunti di riflessione: quale può essere il ruolo dell’imprenditore nello sviluppo di forme di assistenza accessorie a quella statale in un tessuto economico, quale quello italiano, fatto di piccole e medie imprese? Quanto possono fare le forme di responsabilità sociale dell’impresa per aiutare lo Stato sociale?
Le relatrici hanno sottolineato l’esigenza, pur in un contesto problematico per le finanze dello Stato, di preservare la natura pubblica del welfare e la necessità che, compatibilmente con il principio di sussidiarietà, lo Stato non rinunci al proprio ruolo di riduzione delle disuguaglianze e degli “ostacoli di ordine economico e sociale”, in conformità con il precetto costituzionale di cui all’art. 3 della Carta Costituzionale.
In serata una discussione aperta sul tema “Expo 2015: opportunità o spreco?”, ha acceso gli animi: diversi sono stati i punti di vista che Antonio Lareno Faccini, della Camera del Lavoro di Milano, ha sottoposto all’attenzione dei presenti, domandando alla platea quanto e se abbia ancora senso l’organizzazione di “grandi eventi” come Expo 2015. Allo scetticismo dei presenti si è accompagnato l’intento costruttivo: la società civile ha il diritto ed il dovere di informarsi sulla gestione dell’Expo, per garantirne la compatibilità ambientale e soprattutto preservare l’evento dai pericoli della corruzione e dell’infiltrazione mafiosa.
Non poteva mancare, nella mattinata di domenica, il saluto della Presidente di Libertà e Giustizia, Sandra Bonsanti. La Presidente e Salvatore Veca hanno espresso grande soddisfazione per il successo del progetto delle Scuole di Libertà e Giustizia, avviato con coraggio sette anni fa. Libertà e Giustizia intende avvalersi delle competenze degli intellettuali e degli esponenti della ricerca e dell’Università e continuare in futuro a garantire la riuscita di simili iniziative, occasioni di confronto e di apprendimento, nella direzione della formazione di una società civile consapevole dei temi dell’attualità e della politica.
La due giorni si è conclusa con l’attesissimo intervento di Stefano Rodotà, che ha di recente pubblicato il suo “Il diritto di avere diritti”, edito Laterza. Il prof. Rodotà ha illuminato la platea con una relazione che ha confermato quella indivisibilità dei diritti cui Veca, nella sua presentazione, accennava.
L’intima connessione tra dignità e lavoro non è e non deve essere intesa, a parer del prof. Rodotà, come una vuota affermazione retorica. Essa è anzi una delle chiavi di lettura della realtà come deve essere, e dunque del futuro, che la Carta Costituzionale ci offre. Tragedie quale quella di Civitanova Marche testimoniano il rifiuto di una vita che sia solo ed esclusivamente esistenza materiale, rifiuto che è conseguenza della perdita del lavoro che è imprescindibile veicolo di inserimento sociale, di dignità sociale.
Rodotà illustra, richiamando, in una prospettiva comparatistica, l’esperienza costituzionale europea e non solo, come la dignità sociale sia un connotato proprio dell’eguaglianza dei cittadini, delle persone.
Richiamando le parole di Luigi Mengoni, Stefano Rodotà illustra il nuovo modello antropologico che la nostra Carta, con l’art. 1, ha introdotto: l’uomo non è semplicemente proprietario di forza lavoro, ma nel lavoro realizza se stesso. Il lavoro, fondamento della Repubblica, inteso come contributo che ciascun consociato offre alla società (è da intendersi come lavoro anche quello non retribuito, anche quello delle associazioni di volontariato e del terzo settore) è strumento di parificazione sociale sostanziale. In questa prospettiva, il lavoro si lega inscindibilmente ai valori della cooperazione e della solidarietà sociale.
Il diritto ad un’esistenza dignitosa come pienezza di vita, nelle sue molteplici sfumature, emerge, a parer del Prof. Rodotà, anche dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea che ha, dal 2009, lo stesso valore giuridico dei Trattati e che vincola dunque gli operatori giuridici nazionali. L’Europa, dunque, ci vincola certo relativamente al contenimento della spesa pubblica ma, non dobbiamo dimenticarlo, vincola il legislatore ad adempiere obblighi ben più alti: garantire il diritto ai diritti e ad una esistenza piena, indipendentemente dalla qualifica della cittadinanza.
La chiarezza espositiva diRodotà ha sicuramente toccato il cuore di tutti i presenti stimolando l’interesse e le curiosità della platea, per una conclusione del weekend pavese che non poteva essere migliore: ripensando il lavoro, ripensando i diritti.

* Studentessa di giurisprudenza all’Università di Pavia e allo IUSS di Pavia. Socia di LeG

 

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