Al ballottaggio si chiedevano alcune risposte chiare. Tali da dissipare i possibili motivi di dubbio e contrasto, che hanno acuito la tensione soprattutto nell’ultima settimana. Tali da permettere al centrosinistra di affrontare le prossime elezioni unito intorno a un candidato premier condiviso e legittimato. Tre le questioni più importanti. La prima: il vincitore, ovviamente. Il candidato del Centrosinistra, scelto dagli elettori per affrontare le prossime elezioni.
Con molte possibilità di successo. Ebbene, il verdetto, a questo proposito, è stato netto. Ha vinto Bersani. In modo largo. Tanto da dissolvere ogni possibile polemica. E ogni possibile ricorso – peraltro escluso, in precedenza, anche da Renzi. La distanza di 20 punti percentuali, infatti, è tale da ridimensionare anche le polemiche sulle regole relative al diritto di voto. Al primo e, ancor più, al secondo turno. Più che raddoppiata rispetto al dato di partenza. Se anche fosse stata accolta la domanda dei 100 mila elettori che avevano chiesto di partecipare al ballottaggio, senza aver votato al primo turno, il risultato non sarebbe cambiato. Neppure se avessero scelto tutti quanti Renzi. (E ciò suggerisce che un maggior coraggio nell’apertura delle primarie non avrebbe modificato l’esito e avrebbe, anzi, garantito ulteriore legittimazione al candidato eletto). L’impressione – da verificare con analisi più accurate, sui dati definitivi – è che Bersani abbia intercettato gran parte dei voti dei candidati esclusi dal ballottaggio.
La seconda questione riguarda i rapporti di forza tra i duellanti. E, quindi, il grado di omogeneità oppure distinzione, oppure ancora: divisione, del Pd, intorno ai due candidati al ballottaggio. La risposta, al proposito, è più complessa. Perché se è vero che Bersani ha vinto largamente, è altrettanto vero che quasi 4 elettori su 10 si sono schierati con Renzi. Con le sue posizioni, ben diverse e distanti da quelle del segretario del Pd e, ora, candidato del centrosinistra. Difficile non tener conto, in seguito, del voto di questa ampia componente. E di chi li rappresenta. Tuttavia, nel secondo turno si è, in parte, ridimensionata “l’anomalia territoriale” emersa nel primo turno. Quando Renzi aveva “espugnato” proprio le “zone rosse”, esclusa l’Emilia Romagna. Al ballottaggio, invece, ad eccezione della Toscana (dove Renzi ha ottenuto il 52% dei voti), Bersani ha prevalso dovunque. Il che ne rafforza la legittimità, come candidato del centrosinistra.
La terza questione riguarda il grado di mobilitazione, dopo la grande partecipazione al primo turno. Ebbene, a distanza di una settimana si sono ripresentati ai seggi oltre il 90% degli elettori (almeno, da quel che si desume dai dati, ancora provvisori). Un tasso di affluenza molto alto, visto che al ballottaggio si registra, normalmente, la defezione di molti elettori dei candidati esclusi.
Ma quasi 3 milioni di persone che vanno a votare per due volte in sette giorni sono tante. Una risorsa per il centrosinistra e per la democrazia. Dimostrano che il distacco dalla politica e dai partiti espresso dalla società dipende da quel che viene offerto. Se vengono loro proposte “buone ragioni” per partecipare, i cittadini non si tirano indietro.
Comunque, tentando una valutazione di sintesi, alla fine della lunga maratona delle primarie, ho l’impressione che il centrosinistra e soprattutto il Pd si siano notevolmente rafforzati. Ma che, proprio per questo, possano incontrare alcuni seri problemi al proprio interno.
Infatti il Pd, in questi ultimi mesi, ha beneficiato di grande visibilità e di grande attenzione, presso l’opinione pubblica. Come mostrano le intenzioni di voto, che lo hanno visto crescere fino a sfiorare il 35%. Complice l’implosione del Pdl e del centrodestra, prodotta dal rapido declino di Berlusconi. Ma anche dall’incapacità (e dall’impossibilità) del Cavaliere di tirarsi da parte. L’unica opposizione è, dunque, rimasto il M5S di Beppe Grillo. I cui spazi sono stati, tuttavia, contenuti proprio dalle primarie. Dal dibattito e dalla mobilitazione sociale che hanno sollevato. Non a caso, nelle ultime settimane, la crescita del M5S, nei sondaggi, si è arrestata. Anzi, si è assistito a un lieve ripiegamento.
Da ciò la chance, ma anche il rischio per il Pd. Il quale, oggi, appare solo, troppo solo, in mezzo alla scena politica. Non a caso, l’ultima fase delle primarie, più che il processo di selezione del candidato di schieramento, ha dato l’idea, in alcuni momenti, di un confronto “presidenziale”. Soprattutto nel “faccia a faccia” televisivo, andato in onda sulla Prima Rete Rai. Fra due candidati dello stesso partito.
Con una duplice conseguenza per il Pd. Divenire il centro dell’attenzione, ma anche il bersaglio principale – se non unico – della polemica e delle critiche degli elettori. Oltre che degli altri soggetti politici. In secondo luogo, ridurre il “campo” di gioco – le primarie – non al Centrosinistra, ma al solo Pd. Il che può produrre reazioni di rigetto, nella sinistra. Ma anche fra gli elettori di centro. Soprattutto se la coalizione che affronterà le prossime elezioni si rispecchiasse nella “foto di Vasto”. E la rappresentanza degli elettori moderati, strategici in ogni competizione elettorale, venisse “affidata” all’Udc e al Terzo Polo. In attesa di prossime, future alleanze.
Per questo, le primarie hanno costituito una grande occasione di allargamento dei consensi e di rafforzamento politico, per il Pd. Un’opportunità per scoprire e mobilitare la grande offerta di “volontariato” e di passione politica disponibile nella società. Ma, da oggi, possono produrre anche problemi. Se non altro, per il rischio del “silenzio” e della sospensione, dopo tante voci e tanta partecipazione. Il Pd è riuscito a usare bene le primarie. Ora deve gestire bene – e maneggiare con cautela – il dopo-primarie.