L’appello di Gustavo Zagrebelsky “Per una stagione costituzionale. Non parole vuote, ma atti di contrizione“, che abbiamo pubblicato nei giorni scorsi sul nostro blog, è uno scritto certo non facile per il lettore medio ormai abituato a condividere su facebook e twitter facili slogan e indignazioni a misura di click. Ma proprio per questo è indispensabile. E’ indispensabile perché prova a sottrarre la diagnosi dei mali che affliggono la nostra democrazia alla brutalità delle semplificazioni banali; perché tenta di coniugare la riflessione politica con la consapevolezza storica e con l’indispensabile cultura istituzionale, che troppo spesso soccombono davanti alla strumentalizzazione demagogica e alla diffusa (voluta?) amnesia del nostro passato; perché si sforza di restituire alle parole il loro senso più vero, sfuggendo alla trappola della generalizzazione populista e della demagogia a buon mercato. E’ indispensabile proprio perché è difficile: perché obbliga allo sforzo della comprensione e àncora l’indignazione a qualcosa di più saldo e sicuro rispetto al meccanismo abusato e sterile degli stereotipi gridati e della rabbia impotente.
Scrive Zagrebelsky: “Non bastano le parole, quelle parole che si possono pronunciare a basso costo; parole banali anch’esse, che non vogliono dire nulla perché non si potrebbe che essere d’accordo. Nella politica, che è il luogo delle scelte e delle responsabilità, dovrebbe valere la regola: tutte le parole che dicono ciò che non può che essere così, sono vietate. Non vogliono dire nulla riforme, moralità, rinnovamento, innovazione, merito, coesione, condivisione, giovani, generazioni future, ecc.: vuota retorica del nostro tempo che tanto più si gonfia di “valori”, tanto più è povera di contenuti. Chi mai direbbe d’essere contro queste belle cose?”
Zagrebelsky già da tempo denuncia la corruzione del linguaggio che si traduce in impossibilità di comprendere e rappresentare correttamente la realtà che stiamo vivendo: se le parole non ci sono, o il loro significato è distorto e alterato, se nessuno riesce più a gridare “il Re è nudo!”, se nessuno è più in grado nemmeno di vedere nei giusti termini la nudità di un potere autoreferenziale e attaccato solo al proprio privilegio, allora le possibilità di riscatto si assottigliano paurosamente e drammaticamente.
Molti parlano della necessità di una nuova “stagione costituente”. Zagrebelsky, invece, si appella ad una “stagione costituzionale“. La differenza semantica è netta. La nostra Costituzione non è un arnese vecchio, da spedire in pensione con disinvoltura, in nome di una spregiudicata rottura con valori novecenteschi che vengono strumentalmente descritti come superati: semmai la nostra Costituzione è, oggi, inapplicata, soprattutto in quei principi che la rendono assolutamente attuale e moderna; e, ancora, la nostra Costituzione è poco letta e conosciuta, nella sua genesi e nel suo significato più profondo. Si parla molto, si parla troppo, della necessità del suo aggiornamento, ma senza sapere davvero di che cosa si tratta e, il più delle volte, senza avere l’autorità prima di tutto morale per discuterne.
A questo punto, mentre ferve la campagna per questo o quel candidato alle primarie del centrosinistra o a quelle ancora nebulose del centrodestra, mentre si alza l’onda impetuosa del rifiuto violento non di un modo sbagliato di fare politica, ma della politica tout court, in nome di scorciatoie populiste e demagogiche, e per questi motivi pericolosissime, occorre che ciascuno di noi ripensi profondamente il proprio modo di vivere e praticare la cittadinanza, nel senso più alto del termine. In questa direzione si muove l’appello di Zagrebelsky. Ed è per questo che va condiviso e rilanciato: il prossimo 24 novembre a Milano, certamente, ma non soltanto. Dobbiamo richiamare con forza la politica ai suoi doveri, dobbiamo evitare gli estremi opposti del silenzio rassegnato e dell’invettiva becera, dobbiamo sforzarci, in ogni occasione, di praticare la buona militanza democratica, di occupare gli spazi di discussione con la pratica corretta della testimonianza, della partecipazione, della riflessione e della proposta. Non è la strada più facile. E’ sicuramente quella più difficile e, non di rado, frustrante. Ma è l’unica che possa garantirci, prima o poi, l’uscita da quell pantano, tanto per usare la medesima definizione che ne dà Zagrebelsky, in cui purtroppo si è trasformata la vita politica e istituzionale nel nostro Paese.