Un paio di settimane fa ero a Madrid, nei giorni delle manifestazioni contro il governo e degli scontri con la polizia, di cui hanno ampia- mente riferito i nostri giornali e le nostre televisioni, talora esagerandone — specialmente sullo schermo — la portata e la violenza. Trovandomi per caso in una delle zone calde, ho provato un sentimento non di paura — pensavo a dimostrazioni ben più inquietanti, da quelle a Trieste nell’immediato dopoguerra a quelle degli anni Settanta o alle battaglie per le strade a Genova nel 1960 o in occasione del G8 — ma di sconforto, uno sconforto che sconfinava in un vago timore sovrapersonale, in un vero malessere.
Proprio i comprensibili motivi all’origine della protesta — le condizioni di vita sempre più dure per un numero sempre più vasto di persone, le crescenti difficoltà di far fronte alle esigenze fondamentali della popolazione (sanità, assistenza sociale, pensioni, lavoro) — incutevano una plumbea, smarrita tristezza, facevano sentire fisicamente l’incombere di un futuro di grigiore e di vita grama e umiliata. Davano un senso di insicurezza, evocato recentemente da Bauman.
Questo sentimento di un futuro frustrante ed opaco non preoccupa direttamente la mia generazione; come ai vecchi di Svevo, a noi non interessa personalmente il futuro, il nostro universo è il presente, da afferrare e godere o da scansare quando ci fa soffrire. La gente della mia età non è immalinconita dalle incertezze e dal possibile squallore del futuro; abbiamo già, in generale, estratto da tempo le carte al nostro tavolo da gioco, carte che ci danno una buona probabilità di cavarcela abbastanza bene per il tempo che ci interessa. Ma chi si apre oggi alla stagione della vita in cui si decidono l’esistenza, la sua qualità e il suo significato, si sente impedito nelle sue esigenze di sbocciare, di costruire il proprio mondo, di far valere il proprio diritto alla felicità proclamato dalla Dichiarazione americana. E allora lo sgomento prende pure chi non teme per se stesso e, se fosse per lui, continuerebbe a spassarsela vuotando la dispensa per lui ancora più che sufficiente; lo sgomento lo afferra e non solo perché teme per altri che gli stanno a cuore almeno come se stesso — figli, nipoti — ma perché siamo tutti responsabili del destino di tutti e non si può essere felici se si è circondati dalla tristezza, non si può essere veramente vivi in un mondo spento.
Nelle stesse ore, i giornali a Madrid parlavano dei fermenti di separatismo sempre più intensi in Catalogna e dell’involuzione e della paralisi che ne derivano alla politica dell’intero Paese, di quel grande e vitale Paese che è la Spagna, e dell’Europa in generale. C’è nell’aria la sensazione di un crepuscolo dell’Europa. Quelle dimostrazioni — simili a quelle di tante altre regioni europee — non apparivano l’espressione di una ribellione politica, di un progetto alternativo, magari discutibile o inaccettabile, ma pur sempre progetto di futuro; non evocavano l’immagine di un esercito all’attacco, ma piuttosto di reparti che marciano per la cerimonia dell’ammainabandiera.
L’Unione Europea — con le sue commissioni, i suoi bizantinismi, le sue cautele, le sue necessità di compromesso, il paralizzante incrociarsi dei veti dei suoi Stati membri, le sue infinite mediazioni sempre più simili a situazioni di stallo — sembrava, sembra lontana come l’imperatore della celebre parabola kafkiana, il cui messaggio risolutivo è per strada ma non arriva mai. E intanto, alimentati dalla crisi economica, si diffondono i miasmi dei nazionalismi, dei particolarismi, dei localismi, delle ottuse e rancorose velleità separatiste, nell’assurda smania che ogni nazionalità o etnia, che devono ovviamente potersi sviluppare pienamente, debba o possa divenire uno Stato (la Svizzera dovrebbe quindi spaccarsi in quattro Stati, cosa che gli svizzeri non sembrano vogliosi di fare) e che la chiusura in un’astiosa separatezza possa risolvere la crisi economica.
La nostra unica realtà possibile, l’unica che possa garantire sicurezza e stabilità, è l’Europa. Uno Stato europeo, un vero Stato — federale, decentrato, ma con una sua coesione e una sua cogente autorità, come gli Stati Uniti d’America — un’Europa di cui gli attuali Stati nazionali diventino regioni, ognuna con la sua autonomia ma nessuna delle quali abbia ad esempio diritto di veto in merito alle decisioni politiche di un governo che realmente governi né diritto di darsi leggi e tantomeno costituzioni in contrasto con i principi della Costituzione europea. Uno Stato europeo la cui autorità si affidi non ad avvertimenti o a moniti, ma all’effettività di un vero diritto.
Un reale Stato europeo è l’unica possibilità di un nostro futuro dignitoso. Oggi i problemi non sono più nazionali, riguardano tutti; è ridicolo ad esempio avere leggi diverse, nei diversi Paesi, riguardo all’immigrazione, come sarebbe ridicolo avere a questo proposito leggi diverse a Bologna e a Genova. Un autentico Stato europeo potrebbe inoltre ridurre molti costi, ad esempio le spese per tutte le infinite commissioni, rappresentanze e istituzioni parassitarie. L’Europa è, in sé, una grande potenza ed è penoso vederla spesso ridotta a litigiosa o, peggio, cauta e impotente assemblea condominiale. Per essere all’altezza di se stessa, per diventare veramente Europa, l’Unione Europea dovrebbe essere governata con decisione e autorità, senza vaporosi ecumenismi né paura di mettere in riga, a seconda dei casi, chi vuol tener pulita casa propria gettando le immondizie in quella del vicino. Probabilmente l’Unione Europea non è in grado di agire con robusta fermezza, ma se continuerà a non esserlo sarà la sua fine, un progressivo spegnersi di luci in un cinema che si vuota. Per la prima volta nella Storia, si cerca di costruire una grande comunità politica senza lo strumento della guerra. Proprio il rifiuto della guerra esige un’autorità che funzioni; la titubanza non è democrazia, ma la sua morte.
Se si ha la sensazione che l’Europa unita stia scricchiolando e sfilacciandosi, è naturale, per chi crede in essa, provare quel senso di disagio e depressione di quella sera a Madrid. Naturalmente ciò non significa arrendersi alla malinconia; non siamo al mondo per indulgere ai nostri stati d’animo, alle malinconie delle nostre animucce che talvolta derivano da una cattiva digestione. Disagio o no, si continua a lavorare come si può per ciò che si ritiene giusto o il meno peggio, nella testarda convinzione che «non praevalebunt». Il malessere e la stanchezza pessimista sono un male da combattere, tanto più quanto più essi sono, come oggi, sempre più diffusi. Certo, a leggere i grandi documenti così pieni di fede, dei padri fondatori dell’idea di un’Europa unita, come ad esempio il Manifesto di Ventotene di Spinelli, Rossi e Colorni ci si accorge che, in quell’epoca orrenda — come diceva Karl Valentin, geniale cabarettista e ispiratore di Brecht — il futuro era migliore.