Le macerie della destra

25 Settembre 2012

Massimo Giannini

C’è questa destra italiana, oggi, sotto le macerie fumanti della Pisana. Ma i miasmi spurgano ovunque. Per una Polverini che fa un passo indietro nel Lazio, c’è uno Scopelliti che resiste in Calabria, un Caldoro che resiste in Campania. E soprattutto c’è un Formigoni che continua inopinatamente a “regnare” in Lombardia

LE DIMISSIONI di Renata Polverini, forse le più lunghe della storia repubblicana, non sono solo l’ultimo atto di una gigantesca ruberia regionale. Nell’uscita di scena della governatrice c’è il tramonto di una carriera personale. C’è il tracollo di un sistema di potere fondato sul saccheggio del denaro pubblico. C’è la tragedia di una destra italiana che consuma la fase terminale della sua balcanizzazione, e di un Pdl che di fatto cessa di esistere come soggetto politico. Sono tutti colpevoli, in questo pecoreccio lupanare romano, metafora solo più rozza e plebea di un verminaio che è anche italiano.

Colpevole è la Polverini. Se non sul piano giudiziario (almeno fino a prova contraria) sicuramente sul piano politico. Ha avuto bisogno di una settimana per capire ciò che era chiaro fin dall’inizio. Di fronte all’enormità dello scandalo che ha travolto la sua Regione, il suo partito e la sua lista, resistere non era solo impossibile. Era prima di tutto irresponsabile. Lei l’ha fatto. Per sette giorni ha tentato di difendere l’indifendibile. La Grande Abbuffata della Pisana e i Toga party alla vaccinara, gli stipendi gonfiati fino a 50 mila euro al mese e gli “ad personam” da 200 mila euro all’anno dei consiglieri, il Suv del Batman di Anagni e le ostriche dei Battistoni e degli Abruzzese.

Davanti alle tre delibere regionali che hanno fatto lievitare da 1 a 14 milioni i fondi pubblici “rubati” dai partiti nel corso dei tre anni della sua consiliatura, non ha capito che non avrebbe potuto recitare (anche lei, come a suo tempo Scajola e poi persino Bossi) la parte della governatrice “a sua insaputa”. O forse lo ha capito, ma proprio per questo non ha voluto e potuto fare altrimenti, cioè scaricare su altri colpe che, se non erano sue dal punto di vista soggettivo, lo erano senz’altro dal punto vista oggettivo. Ora parla di “consiglio indegno”. Dice di aver aspettato proprio per vedere “fino a che punto il consiglio era vile”.

La verità è un’altra. Si è illusa che quella patetica sforbiciata ai trasferimenti e alle auto blu, votata in tutta fretta sabato scorso, fosse il colpetto di spugna sufficiente a mondare la Regione di tutti i suoi peccati. Si è lasciata addomesticare da Berlusconi, che le ha chiesto di restare al suo posto per non aprire nel Lazio una faglia che avrebbe finito per inghiottire quel che resta del Popolo delle Libertà. In ogni caso, lei non poteva e non può tuttora chiamarsi fuori, perché è stata ed è parte di quel “consiglio indegno”. Perché dal 2010 ne ha di fatto coperto gli atti e i misfatti. Per colpa (non ha vigilato). O per dolo (ha condiviso). Il risultato politico non cambia. Le sue dimissioni non sanano niente. Al contrario, amplificano lo scandalo.

Colpevoli, sia pure in forma e in misura totalmente diverse, sono i partiti dell’opposizione. In questi anni sono stati testimoni dello scempio, e invece di farlo esplodere lo hanno silenziato, mettendo anche la loro firma sulle delibere spartitorie della maggioranza. Certo (anche qui, fino a prova contraria) non hanno usato quei soldi dei contribuenti per festini in maschera e scorpacciate pantagrueliche da Pepenero. Giurano di averli impiegati per stampare manifesti e organizzare convegni. Insomma, per fare normale attività politica. Ma la quantità anomala di denaro che hanno comunque contribuito a drenare, mentre la Regione triplicava la sovrattassa Irpef e tagliava i posti letto negli ospedali, meritava un altro impiego. E comunque una denuncia pubblica, indignata e fragorosa, che invece non c’è stata. O è arrivata troppo tardi, con le dimissioni in massa annunciate dai consiglieri Pd, Idv e Sel. O è arrivata in modo ambiguo e omertoso, come nel caso dell’Udc.

Ma il vero colpevole di questa devastante catastrofe etica e politica è la destra italiana. Una destra che dà il peggio di sé, da Belsito a Fiorito. Che va in frantumi, da Palermo a Milano. E lascia deflagrare, al centro e in periferia, l’inevitabile diaspora tra le sue “culture” mai fuse perché inconciliabili o inesistenti: il populismo autocratico del Cavaliere, il moderatismo irenico degli ex democristiani, l’affarismo famelico dei cacicchi post-missini. Persi per strada prima Casini, poi Fini e da ultimo Bossi, Silvio Berlusconi non ha riunito queste “anime perse” sotto le insegne del conservatorismo europeo, ma le ha impastate con il fango dei rispettivi interessi (economici e affaristici). Le ha plasmate a sua immagine e somiglianza, secondo i “principi” dell’azzardo morale, dell’arricchimento individuale, dell’impunità penale. Le ha indottrinate di ideologismi demagogici su scala nazionale, ma gli ha lasciato mani  libere  scala locale.

Il risultato è questo. Oggi, con l’ammaina bandiera nel Lazio, il Pdl viaggia a grandi passi verso la dissoluzione finale. Un destino irreversibile, per un partito “personale” che è nato e che morirà insieme all’improbabile maieuta che l’ha creato in pochi mesi e con molti miliardi. Che l’ha dotato di cuore, l’ha nutrito di pancia ma non ha voluto o saputo dargli una testa e due gambe per camminare. Non ha voluto o saputo dargli un’identità e una struttura. Sono penosi, in questi giorni, i conciliaboli a Palazzo Grazioli tra il Cavaliere e Angelino Alfano, i soliti coordinatori e gli impresentabili capigruppo. Ed è ancora più penoso sentire Gianni Letta che sdottoreggia alla Luiss contro “i gruppi di interessi particolari che frenano il sistema” (lui, che di quei “gruppi” è da vent’anni il garante supremo) o Gianni Alemanno che invoca “l’azzeramento totale e la rifondazione del centrodestra” (lui, che da sindaco della Capitale ha assunto plotoni di famigli e di ex picchiatori fascisti all’Ama e all’Atac.

C’è questa destra italiana, oggi, sotto le macerie fumanti della Pisana. Ma i miasmi spurgano ovunque. Per una Polverini che fa un passo indietro nel Lazio, c’è uno Scopelliti che resiste in Calabria, un Caldoro che resiste in Campania. E soprattutto c’è un Formigoni che continua inopinatamente a “regnare” in Lombardia. La sua Vacanzopoli ambrosiana può apparire forse un po’ più raffinata nella forma, ma nella sostanza non è meno grave della Sprecopoli ciociara. Sarebbe ora che anche il Celeste ne prendesse atto.

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