La crisi istituzionale senza precedenti che si è creata nel conflitto tra Procura di Palermo e il Capo dello Stato, per la sua gravità merita di essere esaminata con il massimo grado di obiettività ed equilibrio.
A tale scopo, giova in primo luogo effettuare una sommaria ricognizione della disciplina di diritto positivo sulla materia.
Le norme rilevanti
Importanza pregiudiziale assume l’ Articolo 90 Cost.: “il presidente della Repubblica non è responsabile degli atti commessi nell’esercizio delle sue funzioni, tranne che per alto tradimento o per attentato alla Costituzione”
Il procedimento da seguire nel caso di reati previsti dall’articolo 90 è dettato dagli articoli 5 e segg. della legge 5 giugno 1989 n. 219; per tali reati il comma 4 dell’articolo 5 stabilisce che le indagini relative sono svolte dal comitato istituito ai sensi dell’articolo 12 della legge costituzionale 11 marzo 1953 n.1
L’articolo 7 della legge dispone – comma 2 – che devono in ogni caso essere deliberati dal comitato i provvedimenti che dispongono intercettazioni telefoniche o di altre forme di comunicazione, ovvero
perquisizioni…
Il comma 3 recita: nei confronti del presidente della Repubblica non possono essere adottati i provvedimenti indicati nel comma 2 se non dopo che la Corte Costituzionale ne abbia disposto la sospensione dalla carica.
Tanto premesso per quanto riguarda lo stato della legislazione, si osserva, in relazione al caso concreto.
E’ del tutto indiscutibile che l’episodio di cui si discute – cognizione di conversazioni telefoniche intercorse tra il Presidente della Repubblica e il sen. Mancino – rientra tra quelli cui si estendono le prerogative del capo dello Stato.
Le richieste di contatti telefonici avanzate dal Mancino, e le relative conversazioni, ineriscono sicuramente al ruolo del Capo dello Stato, presidente Napolitano, non solo in quanto massima autorità dello Stato ma anche, e soprattutto, in quanto presidente del Consiglio superiore della Magistratura, organo cui compete la
vigilanza sulla condotta dei magistrati. (valga a conferma l’esempio di Pagliaro sull’incidente di caccia con un capo di Stato straniero, compreso nell’immunità).
È quindi indiscutibile che la cognizione di tali conversazione rientra nell’ambito delle prerogative previste dalla legge, e non può essere quindi disposta né raccolta dall’autorità giudiziaria ordinaria.
Le obiezioni della procura di Palermo.
Sostengono i magistrati palermitani, che questa disciplina è estranea al caso in questione, poiché il provvedimento di intercettazione non si riferiva alla persona del Capo dello Sato, ma ad un soggetto diverso, cui non spetta alcuna prerogativa processuale. E nei suoi confronti soltanto il provvedimento è motivato. La persona telefonicamente contattata dall’indiziato non è quindi di per sé minimamente investita dal provvedimento della magistratura, e la conoscenza del tenore della conversazione intercorsa è fatto del
tutto accidentale, che non lede la figura dell’interlocutore, ossia del Capo dello Sato. Si richiama al riguarda la nozione di intercettazione indiretta, secondo cui il dialogo che si svolge tra il soggetto intercettato e un terzo, è pienamente conoscibile e valutabile ai fini processuali e penali.
La nozione di intercettazione indiretta è frutto di una elaborazione della Corte costituzionale, a seguito dell’intervento della legge 20 giugno 2004 n. 140, in materia di procedimenti penali nei confronti
delle alte cariche dello Stato. Questa legge stabilisce – all’articolo 4 – che “quando occorre eseguire nei confronti di un membro del parlamento perquisizioni personali o domiciliari…intercettazioni, in qualsiasi forma, di conversazioni o comunicazioni…l’autorità competente richiede direttamente l’autorizzazione della Camera alla quale il soggetto appartiene”.
Il successivo articolo 6 dispone che “il giudice per le indagini preliminari…qualora ritenga irrilevanti …i verbali e le registrazioni delle conversazioni …ovvero i tabulati di comunicazioni acquisiti nel corso dei medesimi procedimenti, sentite le parti, a tutela della riservatezza, ne decide, in camera di consiglio, la distruzione integrale ovvero delle parti ritenute irrilevanti a norma dell’articolo 269 del codice di procedura penale.”
La Corte Costituzionale, con sentenza n.390/2007, ha dichiarato l’illegittimità della norma “nella parte in cui stabilisce che la disciplina ivi prevista si applichi anche nei casi in cui le intercettazioni debbano essere utilizzate nei confronti di soggetti diversi dal membro del parlamento le cui conversazioni sono state intercettate”
In altre parole, codeste conversazioni possono essere utilizzate nei confronti del soggetto che dialoga con il parlamentare, ma non nei confronti del parlamentare medesimo. Deve però trattarsi di intercettazioni disposte, per così dire, per accertare eventuali responsabilità del terzo, non già maliziosamente costruite per acquisire dichiarazioni del parlamentare (ad esempio sottoponendo ad intercettazione persone in suo stretto contatto, al fine di fare emergere le dichiarazioni di lui).
Prime conclusioni in diritto
Applicando questa problematica alla questione di cui si tratta, se ne traggono alcune prime chiare conclusioni:
– l’intercettazione disposta nei confronti del senatore Mancino, persona indiziata, era perfettamente legittima, non vedendosi come si potesse, o dovesse, in anticipo ipotizzare che egli avrebbe direttamente interpellato il capo dello Stato.
– Alla luce delle disposizioni di cui si è detto, la registrazione di quelle conversazioni, se ritenuta irrilevante nei confronti dell’indiziato (Mancino) , dovrebbe essere integralmente distrutta.
– Competente a disporne la distruzione è il giudice per le indagini preliminari; mai questo provvedimento potrebbe essere adottato di sua iniziativa dal pubblico ministero.
– La distruzione può essere ordinata soltanto dopo che il giudice per le indagini preliminari ha “sentito le parti”.
– Se invece la conversazione è rilevante, il suo tenore è utilizzabile nei confronti dell’on.le Mancino. In questo caso il testo, nella sua integrità, non può essere cancellato.
Quale incidenza ha in questo quadro il fatto che l’interlocutore dell’indiziato sia il Presidente della Repubblica?
La situazione normativa sopra esposta non considera l’ipotesi che l’interlocutore dell’indiziato sia il Capo dello Stato.
È questo, l’aspetto che contrassegna e caratterizza la vicenda in esame, in qualche modo differenziandola dalla comune ricostruzione del sistema fin qui esposta.
Nei riguardi del Capo dello Stato, la legge direttamente vieta qualsiasi tipo di intercettazione che non sia stata preceduta da un provvedimento di sospensione dalla carica disposto dalla Corte Costituzionale.
La legge non distingue minimamente tra le ipotesi di intercettazione diretta o indiretta, preordinata o casuale. Stabilisce in modo tassativo che il Capo dello Stato non può essere intercettato. Il divieto non ammette eccezioni, e, secondo il noto brocardo ubi lex non distinguit nec nos distinguere debemus, è irrilevante che i discorsi del Presidente siano stata ascoltati e raccolti di proposito ovvero accidentalmente.
Le distinzioni giudiziariamente introdotte (e recepite dalla Corte Costituzionale) per fini e situazioni del tutto diverse (la tutela della libertà del parlamentare contro il rischio di invasioni surrettizie) non possono incidere in alcun modo sulla intangibilità della posizione del Capo dello Stato, quale risulta dal diritto positivo vigente. Dunque le parole pronunciate del capo dello Sato non possono essere raccolte e conservate a nessun fine.
Ipotesi di soluzione processualmente ammissibile.
Rimane da risolvere la questione relativa alla sorte della registrazione, una volta che essa sia di fatto avvenuta. Qui, la tesi che sembra voglia essere imposta dal Quirinale e sostenuta da parte della stampa – provveda ex abrupto il pubblico ministero alla loro distruzione – non è processualmente ammissibile, nessuna norma
consentendo al pubblico ministero, parte processuale, la distruzione di alcunché dove la legge non lo preveda. E la legge stabilisce – anche la n. 140 del 2003, notoriamente contestatissima peraltro – che la distruzione integrale è disposta dal giudice, “sentite le parti”(articolo 6).
Affatto impraticabile è la soluzione caldeggiata da Gian Luigi Pellegrino nell’articolo comparso su Repubblica del 21 luglio 2012, invocando l’articolo 271codice di procedura penale. Questa norma difatti, a tacer d’altro, prevede la distruzione delle intercettazioni ad opera del giudice “in ogni stato e grado del processo”. Quindi questa decisione, in primo luogo, spetta al giudice e non al pubblico ministero, in secondo luogo deve avvenire
“in qualunque stato e grado del processo”, ovverosia dopo l’esercizio dell’azione penale, e non nella fase della indagini.
Qual è dunque la soluzione ammissibile dinanzi alla indebita registrazione di conversazioni che non dovevano in alcun modo essere raccolte, e prive comunque di qualsiasi successivo esito processuale?
È quella di disporre – questo sì rientra nei poteri del pubblico ministero – la separazione delle parole del Capo dello Stato dalcontesto della registrazione, per raccoglierle in un separato strumento sigillato e a chiunque intercluso, che il procuratore iscriverà come allegato ad un proprio provvedimento di stralcio da iscrivere a mod. 45; ovverosia in quel modello degli “atti non costituenti reato”, secondo la terminologia adottata dal legislatore all’atto dell’introduzione del nuovo rito, dove rimarrà custodito per il termine di cinque anni, decorso il quale potrà essere distrutto secondo quanto prevede l’articolo 5 del D.M. 30 settembre 1989 n. 334
Questa pare essere la soluzione tecnicamente corretta del problema che ha dato luogo al conflitto.