La Costituzione non è merce di scambio

18 Maggio 2012

Mentre il Pdl mostra qual è il suo vero obiettivo, e cioè l’elezione diretta del premier, Valerio Onida aggiunge le sue perplessità a quelle della presidenza di LeG, sulle riforme costituzionali

Caro direttore, in Parlamento si sta discutendo di un progetto di riforma costituzionale, la cui approvazione dovrebbe, a quanto pare, scaturire da un accordo fra i tre maggiori gruppi parlamentari che appoggiano il governo Monti. C’è una prima anomalia da notare: il livello di attenzione dell’opinione pubblica, non tanto sull’intento riformatore in sé, quanto sul merito delle riforme progettate, è estremamente basso. Eppure si tratterebbe di mettere mano a parti centrali e delicate dell’impianto costituzionale. Certo: l’attenzione pubblica è oggi concentrata soprattutto sull’andamento e sulle prospettive della crisi economico-finanziaria e sui suoi risvolti europei. E tuttavia una modifica (di questa portata) della Carta fondamentale non dovrebbe passare sotto silenzio e nella distrazione generale, come già è avvenuto, purtroppo, un mese fa con la modifica in tema di equilibrio del bilancio varata con la legge costituzionale n. 1 del 2012. Il rischio del silenzio è aggravato dal fatto che si vorrebbe approvare la modifica con la maggioranza dei due terzi nelle due Camere, il che escluderebbe la possibilità di un referendum che riaccenda l’attenzione dell’opinione pubblica. In proposito vale la pena di ricordare come da tempo fosse stato proposto (per esempio da Oscar Luigi Scalfaro) di «mettere in sicurezza» la Costituzione prescrivendo che per modificarla occorra in ogni caso la maggioranza dei due terzi e che in ogni caso si possa chiedere il referendum: questa preliminare (e auspicabilissima) riforma non ha però avuto alcun seguito.
Nel merito, sarebbe anzitutto necessario abbandonare l’idea di un «pacchetto» di riforme da varare con un’unica legge, e votare invece separatamente tante leggi quanti sono gli oggetti sostanziali che si vogliono disciplinare. Infatti la prassi del «pacchetto» porta inevitabilmente i partiti e i gruppi a «mercanteggiare» fra loro, accettando anche ciò che non vorrebbero (e magari non dovrebbero) accettare pur di far passare un altro «pezzo» di riforma che essi abbiano a cuore. Se poi si andasse al referendum, una legge unica non consentirebbe agli elettori di esprimersi liberamente a favore o contro ciascuno degli ingredienti che la compongono.
Nel progetto in discussione vi sono almeno quattro oggetti ben distinti, che riguardano rispettivamente: la composizione delle Camere; la distribuzione delle funzioni fra di esse; i poteri del governo nel procedimento legislativo; la fiducia e la sfiducia al governo e lo scioglimento delle Camere (cosiddetta forma di governo); e altri se ne potrebbero aggiungere per strada.
Sul primo punto ciò che servirebbe è una integrazione della riforma proposta: la tanto invocata riduzione del numero dei parlamentari potrebbe essere senz’altro disposta, ma accompagnandola con la cancellazione di quel vero obbrobrio che è l’elezione separata dei rappresentanti degli italiani all’estero, sciaguratamente introdotta nel 2001. È sotto gli occhi di tutti che cosa abbia prodotto questa strana elezione — su scala addirittura continentale — di una pattuglia di parlamentari che non hanno e non possono avere nessun rapporto reale con la loro base elettiva. Gli italiani all’estero che vogliono partecipare alla elezione delle Camere votino casomai per corrispondenza o, tornando in Italia, magari con voli low cost.
Il secondo punto (il bicameralismo) meriterebbe probabilmente una riforma più incisiva, che differenzi davvero le Camere riservando a quella dei deputati il conferimento della fiducia al governo e facendo del Senato una assemblea rappresentativa delle autonomie. Ma questa riforma, lo si è capito, non piace al presente Parlamento. Allora, invece che attribuire a ciascuna delle due Camere una preminenza (e l’ultima parola) su diverse categorie di leggi, difficilmente distinguibili fra loro (le leggi espressione di competenze statali esclusive o invece di competenze concorrenti con quelle delle Regioni), e quindi su «materie» spesso dagli incerti confini, come dimostra l’abbondante contenzioso Stato-Regioni, meglio sarebbe limitarsi a rendere facoltativo, dopo l’approvazione di una Camera, l’esame da parte dell’altra Camera, su richiesta di una frazione di questa. Si avrebbe un risultato di snellimento senza dar luogo a disarmonie o a infinite controversie.
Il terzo punto riguarda i poteri del governo nel procedimento legislativo. È corretto stabilire — lo si potrebbe fare anche con i regolamenti parlamentari — dei termini (congrui) entro cui il governo possa chiedere che le Camere esaminino e approvino o respingano o modifichino i progetti che sono per esso caratterizzanti. E solo nel caso di vano decorso del termine si potrebbe ammettere una sorta di «voto bloccato» sulla proposta del governo. Ma a questo indubbio rafforzamento del potere del governo nel processo legislativo ci si dovrebbe domandare se non accompagnare, per riequilibrarlo, un riconoscimento della facoltà per le minoranze di impugnare direttamente le leggi davanti alla Corte Costituzionale nel caso di violazione delle norme sul procedimento legislativo che ne garantiscono i diritti.
L’ultimo punto (la forma di governo) tocca invece aspetti su cui meglio sarebbe rinviare ogni eventuale decisione al futuro Parlamento, che sarà espresso dagli elettori nel 2013. Il sistema politico italiano è oggi troppo fluido e indeterminato nei suoi lineamenti perché si possa capire fino in fondo quali prospettive e quali rischi si aprirebbero modificando le regole sulla fiducia e sullo scioglimento (che incidono anche sui poteri del capo dello Stato). La tesi, pur frequentemente enunciata, secondo cui il presidente del Consiglio avrebbe oggi troppo pochi poteri è in realtà indimostrata e indimostrabile. I poteri istituzionali (quelli politici effettivi dipendono da fattori, appunto, politici) del primo ministro sono tutt’altro che scarsi nel regime parlamentare che ci caratterizza (basta pensare alla questione di fiducia che egli può porre davanti alle Camere), e ancor più consistenti diventerebbero se si modificassero come si è detto le regole sui procedimenti legislativi.
C’è invece un provvedimento che questo Parlamento non dovrebbe tardare ad approvare: ed è una diversa legge elettorale. Ma questo non ha a che fare con modifiche della Costituzione, semmai con una sua migliore attuazione.

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