L’accordo sulla riforma elettorale è praticamente fatto, anche se l’intesa verrà ufficializzata solo dopo le elezioni amministrative di maggio.
Il compromesso raggiunto tra Pd, Pdl e Terzo Polo non è molto dissimile da quello che il Partito democratico e il centrodestra avevano già raggiunto nel 2007 sulla base di una bozza elaborata da due costituzionalisti Democrat, Stefano Ceccanti e Salvatore Vassallo. A quell’epoca l’accordo saltò non per il merito della proposta di riforma, ma per ragioni eminentemente politiche. Il Pdl, infatti, aveva avvertito il Pd: «Guardate che se il governo va in crisi noi andiamo alle elezioni con questo sistema perché non possiamo sprecare una simile occasione». Romano Prodi cadde e con lui venne archiviata anche quella riforma che ora torna alla ribalta.
La proposta su cui stanno convergendo le tre maggiori forze politiche che sostengono il governo Monti è un sistema di tipo tedesco, con lo sbarramento al 5 per cento, in cui sono stati introdotti alcuni correttivi basati sulla legge elettorale in vigore in Spagna. Infatti si è ragionato a lungo sulla possibilità di ricalcare il sistema tedesco, come voleva Casini, ma stando alle simulazioni fatte, in Italia una simile legge elettorale non risolverebbe il problema della frammentazione. In Parlamento, con lo sbarramento del 5 per cento, vi sarebbero almeno sette, otto gruppi. Di qui la decisione di prendere in considerazione i correttivi spagnoli.
Dunque, si torna al proporzionale e scompare il premio di maggioranza. Il che consentirà ai partiti più grandi di potersi presentare da soli senza essere vincolati a una coalizione. Addio foto di Vasto per il Pd, addio Lega per il Pdl. In compenso le forze politiche che supereranno quota 11 per cento avranno un bonus, ossia otterranno più seggi di quanti ne dovrebbero prendere basandosi sui voti. Invece chi si attesterà tra il 5 e l’11 per cento verrà penalizzato: avrà un numero minore di seggi rispetto ai consensi. È chiaro che una riforma simile favorisce i due partiti maggiori, mentre ridimensiona il potere di veto delle formazioni minori, che avrebbero delle rappresentanze esigue in Parlamento. Finora Casini era apparso molto perplesso, ma adesso il leader del Terzo polo si è convinto, perché è intenzionato a lanciare un’Opa sul centrodestra, per contendergli voti ed esponenti. A Genova, tanto per fare un esempio, ci si sta muovendo già in questa direzione: Claudio Scajola ha bocciato il candidato del Pdl e ha proposto un altro nome su cui chiedere il sostegno dell’Udc, il cattolico Pierluigi Vinai, che proprio ieri ha accettato di correre per la poltrona di sindaco.
L’accordo tra i leader dei tre maggiori partiti è stato siglato, anche se all’interno delle diverse forze politiche ci sono ancora delle resistenze. Le più forti sono nel Pd. A opporsi all’abolizione del premio di maggioranza è infatti un personaggio di peso come Rosy Bindi. La vice presidente della Camera punta sull’accordo con Nichi Vendola e Antonio Di Pietro, che il sistema ispanico-tedesco spazzerebbe via. Per questa ragione sta conducendo una battaglia interna con la determinazione che la contraddistingue. Qualche perplessità l’ha anche il gruppo degli ex ppi che fa capo a Beppe Fioroni. Secondo la riforma con un solo voto l’elettore sceglie sia il candidato del partito nei collegi uninominali, sia la lista bloccata che lo stesso partito presenterà sul proporzionale. Fioroni è contrario a questa ipotesi: «Così si fa finta di cambiare tutto per non cambiare niente. Non si restituisce il diritto di scegliere i candidati all’elettore, visto che, alla fine della festa, il partito decide sia i nomi della lista bloccata che quelli dei candidati presenti nei collegi uninominali. Per questa ragione noi proponiamo che vi siano due voti distinti».
I veltroniani, invece, sono favorevoli all’accordo che nel loro partito ha come maggiori sponsor Pier Luigi Bersani e Massimo D’Alema. Questa comunanza di intenti non deve stupire: con una riforma elettorale del genere salta l’alleanza di Vasto e, di fatto, viene potenziata l’idea del Pd a vocazione maggioritaria che era all’origine del Partito democratico voluto da Walter Veltroni. Ogni forza politica (il ragionamento ovviamente riguarda le grandi, che supereranno agilmente lo sbarramento) infatti si presenterà da sola. E ogni partito candiderà a premier il proprio leader. Questo, naturalmente, consentirà a Bersani di ottenere ciò per cui lavora da tempo: la candidatura alla premiership.
E allora per quale motivo i veltroniani dovrebbero accettare il sistema ispanico-tedesco, dato che non vedono di buon occhio l’ipotesi di Bersani a palazzo Chigi? L’ex segretario del Pd, del resto, non ha fatto mistero di pensare a Mario Monti. Ma oggettivamente non si può coinvolgere un presidente del Consiglio tecnico in una contesa politica. E, dopo la riforma, la possibilità che si debba tornare a una formula governativa come l’attuale è più che concreta. Sarà infatti difficile che un partito riesca a ottenere i consensi che gli permetterebbero di governare da solo, con l’appoggio di una o due formazioni minori, ridotte a ruolo di satelliti. Molto più probabile che alla fine Pd, Pdl e Udc, esattamente come avviene adesso, sostengano lo stesso governo. E a quel punto chi meglio di Monti potrebbe svolgere il ruolo di premier in una siffatta situazione?
Certo, bisognerà aspettare le amministrative prima di vedere ufficializzato questo accordo, ma i partiti coinvolti appaiono determinati, anche perché la «moral suasion» del Quirinale in questo periodo si è rivelata molto efficace.
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