La previdenza è la voce preponderante del bilancio pubblico, ma anche in questa seconda manovra il governo non è riuscito a scalfirla. Le poche misure previste riguardano le prestazioni future, con tempi di transizione molto lunghi: la nuova età di pensionamento delle lavoratrici nel settore privato (65 anni) entrerà in vigore nel 2026. Per l’autunno è stato annunciato un tavolo sulle riforme. Perché esso abbia una chance di successo occorre però sgombrarlo dal totem ideologico che ha sinora bloccato il cambiamento: l’intangibilità dei cosiddetti diritti acquisiti.
Può lo Stato rimangiarsi la parola data e toccare i requisiti d’accesso alle pensioni o addirittura gli importi già in pagamento? Non si rischia di violare quella certezza della legge che è uno dei principi cardine dello Stato liberale?
I diritti sono una cosa seria, ma proprio per questo bisogna riconoscere che non sono tutti uguali. Alcuni (quelli civili e politici) tutelano libertà e facoltà dei cittadini e sulla loro certezza non si può transigere. I diritti sociali sono diversi: conferiscono spettanze, ossia titoli a partecipare alla spartizione del bilancio pubblico, che a sua volta dipende dal gettito fiscale e dal funzionamento dell’economia. Dato che al mondo non esistono pasti gratis, i diritti sociali non possono essere considerati come delle garanzie immodificabili nel tempo. Il loro contenuto deve essere programmaticamente commisurato alle dimensioni della torta di cui si dispone e all’andamento dell’economia e della demografia.
Purtroppo il welfare italiano è stato costruito ignorando questa elementare verità. Negli anni Sessanta furono introdotte formule pensionistiche completamente fuori linea rispetto alle aliquote contributive delle varie categorie, nonché agli andamenti demografici ed economici. Chi si è ritirato dal lavoro (e continua oggi a ritirarsi) con quelle regole ha pagato coi propri contributi la metà scarsa del trattamento di cui gode. In nessun Paese si è creato un divario così enorme fra diritti previdenziali e obblighi contributivi, fra età effettiva di pensionamento (sempre più bassa) e speranza di vita (sempre più elevata). Questo divario ha finito per generare una vera e propria «cultura della spettanza senza condizioni»: l’aver lavorato per 35 o 40 anni, indipendentemente dalla congruità dei contributi versati, è diventato il presupposto fondativo dell’accesso alla pensione. Governi, opposizioni, parti sociali, associazioni di categoria: tutti portano serie responsabilità per aver nascosto ai lavoratori italiani l’insostenibilità finanziaria e culturale di quel presupposto.
Le manovre estive non hanno affrontato la sfida dei tagli strutturali alla spesa pubblica. Se si vuole agire sul serio, sul welfare va fatta al più presto un’operazione verità, che spieghi perché e come debbano essere cambiate le dissennate promesse del passato. Altrimenti di «acquisita» resterà solo la prospettiva di una bancarotta collettiva, senza più alcuna torta da spartire.
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