Vittorie perdute. Ecco che cosa stanno diventando i successi amministrativi e referendari della primavera, la ventata di opposizione costruttiva, la riscoperta della politica. Allora furono poste questioni – la legalità, i costi della politica (la politica ridotta a costo, senza beneficio per i cittadini), i beni comuni, il rifiuto del degrado civile del Paese – che il Pd intercettò solo indirettamente, e quasi di risulta. Le sue prime scelte, infatti, non erano quelle che vinsero a Milano e a Napoli; e solo tardi e con contrasti interni aderì al movimento referendario. Eppure, il Pd si intestò anche quelle vittorie (oltre a quelle, in buona parte sue, che conseguì in centri medi e piccoli); e si propose come l´interprete della domanda di un rinnovamento radicale della politica, del suo rapporto con la società, delle sue procedure, dei suoi costumi.
Ma nell´aggravarsi della situazione del Paese, davanti alla manovra di Ferragosto assurdamente iniqua e alla ‘indignazione´ che per manifestarsi avrà a breve un´occasione nello sciopero generale, l´azione politica del Pd è parsa incerta, tutta politicista – attorcigliata alle beghe interne, e chiusa negli orizzonti del Palazzo –; incerta e dubbiosa è stata la prospettiva di uscita dalla crisi (ora le elezioni, ora i governi tecnici, ora i governi di emergenza), mentre la responsabilità (una parola che nella politica italiana non sempre ha valore positivo, almeno negli ultimi tempi) resa necessaria dalle tempeste finanziarie d´agosto è stata anche un´occasione per l´inerzia, per derubricare le nuove questioni a temi di dibattito in tavole rotonde. O per mandare segnali sconcertanti e disorientanti come quello del salvataggio del province. O per comportamenti al limite del suicidio, come nel caso Penati.
Che, per quel che ci riguarda, è un caso politico. Sotto il profilo giudiziario farà la sua strada. Ma sotto il profilo politico ha già fatto danni colossali. Prima di tutto per le sue proporzioni e per la sua durata, che lo rendono inquietante, e che legittimano l´interrogativo se ci si trovi davanti a un mariuolo singolo oppure a un sistema che lavorava a favore di qualche settore, o cordata, del partito. E poi – posto che Milano non è certo una periferia – per la carriera centrale, romana, che il personaggio ha percorso e poi ha troncato per motivi non chiarissimi. E infine per la lentezza esasperante con cui il Pd ha reagito, convocando gli organi disciplinari (o di garanzia, come si definiscono oggi) solo pochi giorni fa, e accontentandosi finora solo delle dimissioni dell´interessato dagli incarichi, e di un´autosospensione dal partito anch´essa recentissima. Come tardiva, anche, è la pur correttissima richiesta a Penati di rinunciare alla prescrizione e di farsi quindi processare.
Ci si chiede quali equilibri interni siano minacciati da questa vicenda, e se siano tanto importanti da far rimanere inerte il Pd, da accecarlo sui danni terrificanti alla propria immagine e alla propria credibilità che la vicenda sta generando in quella vasta fetta d´opinione davanti alla quale il partito è, sì, veramente responsabile. La responsabilità, infatti, non è solo acquiescenza alla necessità, ma anche, appunto, energia della risposta. E questa energia il Pd finora non l´ha manifestata. Certo, si è difeso duramente dalle critiche della destra sostenendo di esserne di gran lunga migliore; e non ha colto che il punto non è questo, quanto piuttosto di essere all´altezza del compito di riformare (o forse rifondare) l´Italia dopo il quindicennio berlusconiano.
Questa inerzia, questa cecità, hanno alcuni punti di contatto con l´atteggiamento dei partiti di governo ai tempi di Tangentopoli: non per l´arroganza né per il vittimismo (non ancora, almeno), ma per l´incredulità e lo smarrimento con cui si contempla una catastrofe e non si sa che cosa fare, se non consolarsi col dire che gli altri sono peggio, che non tutto il partito è corrotto, e che, dopo tutto, qualcosa di buono lo si è pur fatto. Senza capire che il tragico è proprio qui: nel fatto che quel buono non peserà nulla davanti al marcio che si viene scoprendo.
Manca una dura analisi sui motivi per cui, tra gli applausi dei suoi avversari e lo sgomento della grandissima parte del proprio elettorato, il Pd ogni tanto inciampa in scivoloni – da Delbono a Penati – che ex post paiono sempre ‘incredibili´ ma che forse potrebbero essere evitati con un po´ di ‘pragmatismo´ in meno e un po´ di rigore in più. Non ogni mezzo è adatto ai fini democratici che il Pd si è dato: il banale machiavellismo di periferia – degradazione della ‘grande politica´ machiavelliana – è anzi controproducente: i mezzi cattivi non consentono di raggiungere i fini, ottundono la percezione delle circostanze, e impediscono di rendersi conto che la casa sta bruciando, e che l´emergenza è reale.
In verità, ciò che manca è proprio la politica, prima ancora che l´etica. Manca la capacità di agire politicamente, cioè di avere idee forti, una direzione e un orientamento precisi; manca la determinazione per promuoverle e per servirsi di una accurata mappa mentale che consenta di evitare scorciatoie che sono in realtà labirintici invischiamenti; e manca la prontezza e la durezza nell´allontanare chi sbaglia. La prima riforma che il partito delle riforme deve affrontare non è una ‘rottamazione´ come cambio di personale politico: è la riforma politica che riguarda direttamente le sue procedure, i suoi mezzi, e quindi anche i suoi fini. Una riforma che il Pd – il suo gruppo dirigente – deve fare prestissimo, per non diventare parte del problema, invece di esserne la soluzione.
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