Mentre lo tsunami con epicentro a Londra sta travolgendo il più esteso impero mediatico globale, quello di Rupert Murdoch, si vedono i suoi primi effetti sui giornalismi nazionali, già con l’acqua alla gola per la crisi economica. L’evento scatenante – la scoperta che i tabloid britannici, a cominciare dal defunto News of the World, si facevano concorrenza con metodi che sembrano quelli della CIA, del MI5 e della Stasi negli anni della guerra fredda – fa scrivere a Timothy Garton Ash, editorialista inglese di enorme reputazione, che «da questo putrido pantano dovrebbe emergere un assetto completamente nuovo: negli equilibri tra la politica, i media, le forze dell’ordine e la legge, nell’autoregolamentazione della stampa e nella pratica giornalistica». L’arresto ieri di Rebekah Brooks, l’ex direttore di News of the World che avrebbe aperto oltre dieci anni fa le attività di spionaggio del tabloid domenicale del gruppo Murdoch, probabilmente accelererà il processo auspicato da Garton Ash.
Sull’altra sponda dell’Atlantico sta tumultuosamente crescendo un movimento che s’è autodefinito “Not in America, Mr. Murdoch”. Il columnist del New York Times Joe Nocera chiude il proprio commento sul Murdoch-gate con un latinissimo “mea culpa”: aveva sostenuto che il padrone di News International non avrebbe fatto rimpiangere i Bancroft, che nel 2007 gli avevano venduto il Wall Street Journal per 5,6 miliardi di dollari. Invece, anche grazie all’arrivo a New York di dirigenti editoriali del famigerato News of the World, è finita che «il Wall Street Journal è stato trasformato in un veicolo di propaganda delle opinioni conservatrici del suo proprietario. (…) Mea culpa». Ancora più a destra del quotidiano economico è la rete televisiva Fox News, anch’essa di Murdoch, i cui metodi giornalistici sono sembrati spesso al limite della legalità. Ora è ufficiale che l’FBI sta indagando alcuni giornalisti di testate del gruppo che avrebbero intercettato le telefonate dei familiari delle vittime degli attentati dell’11 settembre. Se emergeranno prove che anche negli Usa ha usato metodi illegali per raccogliere notizie, per l’editore australiano saranno guai seri. Forse, l’inizio della fine.
E da noi? Negli ultimi tre lustri la politica e il giornalismo di casa nostra hanno scritto, insieme, pagine di cui c’è poco da gloriarsi. I punti più bassi sono stati l’invenzione del “metodo Boffo”, cioè l’uso di falsità per infangare un avversario politico e costringerlo a lasciare, e il sistematico stravolgimento censorio della realtà operato dal Tg1 di Minzolini.
Il ripensamento collettivo dovrebbe partire proprio dalla tv, perché è lì che si producono gli elementi informativi primari che contribuiscono a formare la nostra opinione pubblica. L’ha confermato, pochi giorni fa, l’indagine di Censis e Ucsi: il 97,4% degli italiani guarda la tv con regolarità, e nel mondo televisivo italiano si sono ripetuti casi ben più gravi del Murdoch-gate.
L’ultimo in ordine di tempo è di fine giugno, quando dalle carte del processo per il crack Hdc-Crespi sono emersi accordi segreti tra Rai e Mediaset che avrebbero dovuto suscitare una reazione civile collettiva simile a quelle di queste ore in Gran Bretagna e in America. L’obiettivo di quegli accordi era nascondere ai telespettatori del servizio pubblico le sconfitte elettorali della maggioranza nella primavera del 2005, ma è del tutto evidente che negli anni successivi gli episodi di manomissione dell’informazione tv si sono moltiplicati, come dimostra l’inchiesta sulla P4.
Ma anche se il sistematico furto di verità ai danni dell’utenza televisiva è “reato” peggiore dell’intrusione indebita dei tabloid nella privacy di personaggi pubblici al fine di realizzare degli scoop, l’Italia sa di più delle disavventure della rossa Rebekah che delle manovre della bionda Deborah (Bergamini, la protetta che Berlusconi mandò in Rai con l’incarico di farla finita con l’informazione fuori dal controllo del governo). A Deborah, infatti, il Tg1 non ha mai dedicato nemmeno un minuto.
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