Il 16 giugno a Riccione nell’ambito del Premio Giornalistico Ilaria Alpi un dibattito ha trattato del “filo rosso” che lega, se non tutti, molti dei misteri italiani dagli anni Sessanta in poi: stragi, omicidi di mafia, delitti politici, intrighi. Un filo rosso che dimostra sia sul piano della ricostruzione storico-giornalistica sia sul piano giudiziario con sentenze irrevocabili la presenza dietro le quinte dei servizi segreti e comunque di “entità” diverse dai poteri criminali. Ho dato il mio contributo a nome di Libertà e Giustizia.
La domanda da cui il dibattito muoveva è dunque: perché dietro ogni strage, dietro ogni fatto criminale che in un modo o nell’altro interessa o lambisce la politica si sono mosse forze occulte quanto meno con intenti di depistaggio e protezione degli autori dei delitti? Qual’è l’interesse dei servizi e dunque di pezzi dello stato ad inquinare le indagini o addirittura a promuovere fatti criminali?
Si può ancora parlare di servizi “deviati” o è un dato strutturale?
Senza voler dare risposte “globali”, un po’ paranoiche, la spiegazione (condivisa nel corso del dibattito da Giuliano Turone, che nel 1981 era giudice istruttore di Milano e insieme a Gherardo Colombo scoprì l’esistenza della loggia P2) affonda nella storia del dopoguerra italiano e in quello che Alberto Ronchey definì “fattore K”.
La politica in Italia è stata segnata da un alto tasso di illegalità ma anche di segreto. Accade ovunque, ma il caso italiano è abnorme perché il segreto ha coperto un gran numero di fatti gravissimi in danno delle istituzioni e di tanti cittadini, e soprattutto per i fini di questo segreto, diversi dalla tutela delle istituzioni e degli interessi pubblici.
Fino al 1989 e alla caduta del muro di Berlino al legittimo potere formale si è affiancato in Italia un potere reale e sotterraneo che ha fatto di tutto per tenere fuori dal governo la sinistra e in particolare il PCI, schierato con Mosca. Il nemico era prima di tutto interno al paese.
I servizi statunitensi non solo in caso di attività rivoluzionarie da parte del PCI ma anche di una sua legittima vittoria in libere elezioni erano pronti ad una reazione violenta e anche alla guerra civile. Al Patto Atlantico erano allegati protocolli riservati che limitavano fortemente l’autonomia dei servizi di sicurezza italiani rispetto a quelli americani (Giuseppe De Lutiis,“Storia dei Servizi Segreti In Italia”, Editori Riuniti, 1984).
I nostri servizi si sono allora strutturati ed hanno agito, fin dall’immediato dopoguerra, in nome non delle istituzioni legittime del paese ma di una parte politica contro l’altra.
Si è radicata al loro interno una assuefazione a condotte illecite ed eversive. I vertici dei servizi sono stati selezionati per essere non fedeli servitori delle istituzioni ma potenziali eversori (o meglio, dal loro punto di vista, eversori proprio perché fedeli allo stato).
Il nostro apparato di sicurezza in nome degli interessi politici che era chiamato a tutelare e con la protezione della politica ha stretto alleanze con la mafia, fin dallo sbarco americano in Sicilia, in chiave di contrasto al partito comunista e a tutta la sinistra, compreso il sindacato.
La storia, non a caso, comincia con la strage di Portella della Ginestra il primo maggio 1947.
Dice un proverbio siciliano che “chi mangia fa molliche”. I grandi progetti di eversione (perché è eversivo, pur nel formale rispetto delle forme costituzionali, un gioco politico di cui è già scritto il finale) producono conseguenze, lasciano cascami e residui di lavorazione servendosi di alleati, esecutori, organizzatori a vari livelli, manovalanza.
La storia delle collusioni politico-mafiose e del voto di scambio è quella di un reciproco interesse.
La politica, già ricattabile per il basso livello di etica personale di molti, è diventata complice dei rapporti illeciti dei servizi con entità esterne e debole di fronte agli uni e alle altre.
I rapporti tra uomini dei servizi ed esponenti criminali dell’area neofascista e i depistaggi delle indagini sulle stragi funzionali alla “strategia della tensione” sono dimostrati anche da sentenze definitive.
Si è così formata una rete di persone, ambienti e apparati che sapendo delle malefatte o avendovi partecipato hanno vantato benemerenze e cercato ricompense. Hanno acquisito potere di ricatto verso lo stato e preteso aiuto in caso di problemi, anche giudiziari.
L’esempio più noto è quello della banda della Magliana, vera “agenzia affari sporchi” per conto dei servizi.
Quanto alla camorra basta ricordare il caso Cirillo, assessore regionale democristiano della Campania sequestrato dalle Brigate Rosse nel marzo 1981, la cui liberazione fu ottenuta dal suo partito e dal governo dopo una trattativa occulta gestita dalla camorra con il pesante intervento dei servizi e con il pagamento di un forte riscatto in denaro. La camorra fu poi “ringraziata” dalle BR con l’omicidio, tra l’altro, del capo della Squadra Mobile di Napoli, Antonio Ammaturo.
Ma anche ambienti diversi da quelli criminali sono stati utilizzati e inquinati. Tutti ricordiamo il porto delle nebbie della Procura e del Tribunale di Roma negli anni settanta/ottanta. E tra i giornalisti, Renato Farina, alias agente Betulla, già negli anni ottanta scriveva articoli in serie contro il pool antimafia di Palermo e poi è stato smascherato come collaboratore dei servizi da Armando Spataro nel processo per il sequestro di Abu Omar.
Sul conto di Bruno Contrada i dubbi di Giovanni Falcone e quelli del generale dalla Chiesa (Nando dalla Chiesa, “Delitto Imperfetto”, ed. Mondadori, 1984) erano talmente fondati che Contrada è stato poi condannato per concorso esterno in associazione mafiosa. Dopo la condanna Contrada si è dichiarato servitore dello stato. Il problema è vedere quale stato, cosa intende lui per stato.
Ma il dato più sorprendente è che questo “gioco politico occulto” non era ignoto alla vittima, cioè al partito comunista: il segretario del PCI Luigi Longo era tra i pochissimi uomini politici italiani (sei in tutto) al corrente della costituzione della struttura segreta “Stay Behind” messa in piedi dagli americani proprio per attività di contrasto armato contro il partito comunista (Manuel Gotor, “Il Memoriale della Repubblica”, ed. Einaudi 2011, pag. 22)
E Maurizio Abbatino, uno dei capi della banda della Magliana, in base ad una “diagnosi” di cancro in fase terminale che gli evitò il carcere fu ricoverato nel 1986 nella clinica romana di Mario Spallone, militante comunista e medico personale di Palmiro Togliatti, di Nilde Iotti, di Giorgio Amendola ed altri dirigenti del PCI. Da lì evase, e fu catturato sei anni dopo in Venezuela.
Non fu un caso.
Mario Spallone, come è documentato, era uomo di collegamento tra i servizi e il PCI: non un doppiogiochista, ma al contempo sincero militante comunista e collaboratore dei servizi. Il generale Allavena nel luglio 1964 lo incaricò di avvisare i dirigenti comunisti delle intenzioni golpiste del generale De Lorenzo, perché si mettessero al sicuro.
Non era consociativismo. Era la consapevolezza, su entrambi i fronti, di ciò che la situazione internazionale e la guerra fredda imponevano, a costo di aiutare i boss della banda della Magliana.
Facile capire però quanto profonda fosse poi la ricattabilità degli uni verso gli altri, e della malavita verso tutti.
Chi mangia fa molliche, appunto.
Dunque, il filo rosso è prima di tutto nel progetto di controllo della vita politico-istituzionale del paese per contrasto al partito comunista.
Poi e di conseguenza (in una relazione i cui contorni non sono definibili se non caso per caso) le organizzazioni criminali, acquisita grande forza contrattuale, hanno gestito in proprio affari politici ed economici non di rado molto lucrosi e, anche per una sorta di osmosi tra stato e criminalità, hanno ottenuto appoggi e coperture da pezzi dello stato che quegli aiuti non potevano rifiutare, visti i servigi in passato dati e ricevuti.
Per la fitta rete di compromissioni e potenziali ricatti anche dopo la fine della guerra fredda la storia non è cambiata. La malattia degenerativa delle istituzioni è troppo grave. La tela del ragno è troppo estesa. Troppe tossine sono ancora in circolazione e ne producono di nuove. Non sarebbe stato così se si fosse trattato di semplici “deviazioni” di settori dei servizi segreti.
Tutto questo può forse spiegare perché tanti misteri della storia italiana sono rimasti fino ad oggi irrisolti: perché il contesto non era interamente investigabile.
Si trattava e si tratta di investigare non su fatti, episodi, delitti isolati, ma su contesti estremamente aggrovigliati, indicibili, che nessun file di wikileaks potrà mai svelare. Non è solo cronaca criminale, è la storia delle istituzioni politiche e della loro degenerazione. Sono i segreti del potere, che troppi hanno ancora interesse a nascondere.
Per fortuna in Italia hanno lavorato grandissimi magistrati in tante procure e in tanti tribunali e molte verità sono state svelate. Lo straordinario lavoro della magistratura italiana in molti casi è diventato anche opera di ricostruzione storica e ambientale.
Ma il processo penale è lo strumento appropriato per questo tipo di accertamenti?
Il processo non è fatto per ricostruire la storia e le sue tante zone grige, meno che mai con il nuovo rito entrato in vigore nel 1989.
Dovrà essere la politica a far luce definitivamente sul passato, quando uomini nuovi avranno la cultura, la forza e la piena libertà morale per farlo.