VINTA dal Pd la corsa per Torino e per Bologna, bisogna ancora giocare il secondo tempo della partita per Napoli e per Milano, coi ballottaggi. Ma dopo quasi vent’anni la percezione dei cittadini oggi è che l’Italia abbia deciso di voltare pagina, stufa delle bugie, del parossismo, dell’estremismo che Silvio Berlusconi ha disseminato a piene mani nella campagna elettorale, spinto dall’ansia per un giudizio popolare non soltanto sul suo governo, ma sull’insieme della sua avventura politica. Mentre ancora si deve scegliere il sindaco, quel giudizio c’è stato, e netto. Il Paese vuole cambiare. Ha riscoperto il diritto di credere che il cambiamento è possibile.
È come la riscoperta della politica. Perché quel che è mancato in Italia, negli ultimi due anni, è proprio la politica, nel Paese e nel governo. Entrato a Palazzo Chigi con una maggioranza parlamentare enorme, il Premier l’ha distrutta con le sue mani, confermando nella frattura con Fini quell’incapacità di esercitare la leadership che già aveva manifestato nel ’94, rompendo con Bossi. Ha cercato di rimediare comperando singoli parlamentari in offerta speciale, garantendosi così i numeri per le leggi ad personam, confezionate per tagliare prescrizioni e allungare processi, in modo da sfuggire ai suoi giudici e all’uguaglianza dei cittadini davanti alla legge. Ma oltre i numeri non ha saputo costruire una strategia, un’alleanza e soprattutto una politica, perché non sono in vendita sul mercato.
Il risultato è un Paese
non governato, senza politica estera, senza credibilità internazionale, con una politica economica che bypassa il Premier, prigioniero di un mantra che oscilla tra il negazionismo della crisi e della mancata crescita e il velleitarismo liberista del taglio delle tasse. Tutta l’energia politica del governo è stata prosciugata dall’ossessione giudiziaria del Cavaliere, che ha precipitato e imprigionato due anni di legislatura nella ricerca della sua salvaguardia personale, trasformando l’abuso in privilegio e la difesa di un imputato in affare di Stato. Il risultato è un cozzo istituzionale tra i poteri della Repubblica, sottoposti ad una prova di forza continua, con un’opinione pubblica sollecitata in una tensione permanente, con le categorie primordiali dell’amore e dell’odio, dell’amico e del nemico, della congiura, della metastasi e dell’eversione.
Non si è inteso bene qual era (e qual è, ancora) la posta in gioco in questo test elettorale. Per evitare la conferma popolare del suo declino, il Premier ha tentato il tutto per tutto con una spallata nel suo territorio più simbolico, Milano, dov’è nata la leggenda dell’uomo che si è fatto da sé, e dunque può ben rifare l’Italia. Se lo sfondamento fosse riuscito, il Capo del governo si sarebbe rivolto al sistema politico-istituzionale e ai suoi vertici con una pretesa finale, che già i suoi araldi avevano anticipato: l’anomalia del berlusconismo è semplicemente troppo grande per poter essere risolta, e comunque il consenso popolare l’ha superata e benedetta. Dunque se ne prenda atto. D’altra parte il Paese è stanco delle tensioni e sfibrato dai conflitti. Possono cessare d’incanto: basta che la democrazia si adegui, che la costituzione si adatti, che gli istituti di garanzia si subordinino, accettando che il Premier sia definitivamente sovraordinato rispetto ad ogni altro potere, libero da ogni controllo, finalmente e felicemente sovrano, al posto del popolo, in attesa di assurgere al Quirinale. Il sistema, stravolto ma infine sedato, troverebbe così una sua nuova e deforme coerenza, nel momento in cui la biografia del Capo con le sue necessità diventa fondatrice di un nuovo ordine.
È a tutto questo che gli elettori hanno detto di no, prima ancora di scegliere i sindaci, con i ballottaggi ancora aperti. Hanno capito la portata della sfida, e hanno già saputo rispondere. Dimezzando le preferenze personali di Berlusconi a Milano, cancellando (872 voti su un milione di votanti) quel Lassini che paragonava i magistrati ai brigatisti con manifesti poi benedetti direttamente dal Cavaliere, bocciando al primo turno la Moratti col 41,6 per cento, fermando la Lega nella sua capitale, mandando Pisapia in testa al ballottaggio col 48,1 per cento, a dimostrazione che le menzogne, il livore, gli attacchi alle persone e il fanatismo non passano nemmeno tra la borghesia milanese, perché c’è un limite, persino in Italia. Soltanto in questo Paese un candidato sindaco che viene dalla sinistra radicale può essere accostato al terrorismo – attraverso un falso – e può essere presentato come un politico che vuole consegnare il sagrato del Duomo agli “infedeli”. Col risultato che il Paese, finalmente, non ci sta.
Che tutto questo sia accaduto a Milano è molto importante. Qui, dove si svolge il processo Mills, gli elettori stanno scoprendo che il mito fondatore dell’avventura imprenditoriale e politica berlusconiana è bacato, perché la Mondadori è stata acquisita con la truffa, così come il potere terminale della Prima Repubblica – il Caf di Craxi, Andreotti e Forlani – aveva benedetto la scalata televisiva. Oggi Milano sembra ribellarsi a quella favola e alle suggestioni politiche che ha proiettato sul Paese per vent’anni, assicurando riforme, decisionismo, semplificazione, cambiamento. L’Italia è bloccata e impantanata, e il berlusconismo che aveva promesso di liberarla la tiene prigioniera di interessi privati, personali e inconfessabili.
Milano è anche il cuore dell’alleanza tra la Lega e la destra. E Bossi oggi deve prendere atto che quell’alleanza non paga, al di là delle auto blu che portano i leghisti a Roma a tenere il sacco berlusconiano delle leggi ad personam, a dire in Parlamento sì alla menzogna spaventata del Premier su Ruby nipote di Mubarak, a tradire la fiducia nella legalità della base padana, a reggere una politica ideologica sull’immigrazione con un Premier che ha cambiato cinque volte posizione sulla “primavera” dei Paesi arabi: entrando nei vertici internazionali con una posizione per uscirne con la posizione opposta, senza nemmeno aver consultato la Lega.
Ma è il mondo più intimo del berlusconismo, quel partito senza regole, senza autonomia e senza libertà che sta scoppiando per il soffocamento di un carisma autoritario che non ammette il confronto e i distinguo, nell’atrofia vagamente idolatra della riduzione del maggior partito italiano al destino di uno solo, nel vuoto della mancanza di ogni dibattito interno, con gli ex colonnelli ridotti a caporali nei signorsì delle comparsate di una televisione militarizzata. Perché non basta più nemmeno l’eccesso, l’accumulo, l’abuso, la forzatura continua se manca la politica: per fortuna della democrazia, che di politica ha bisogno.
La politica ha riportato il Pd al Nord, dalle cui mappe era stato troppo velocemente cancellato: oggi pesa quanto il Pdl a Milano, ha riconfermato con Fassino il suo primato a Torino, ha rieletto il sindaco a Bologna, porta la destra al ballottaggio a Trieste. Mentre a Napoli è surclassato da De Magistris, dopo un percorso di guerra incomprensibile a chiunque e suicida per tutti nelle primarie. La politica di Bersani, che vuole prima di tutto superare non il berlusconismo ma le sue anomalie, sta incominciando a pagare. A costo zero, con solo l’impiego di un po’ di generosità e di preveggenza, un Pd saggio oggi completerebbe l’opera nominando Sergio Chiamparino (autore di un piccolo miracolo torinese) coordinatore delle politiche per il Nord, utilizzando al meglio un’esperienza importante e riconosciuta. Sarebbe un interlocutore sul campo – d’intesa col leader del partito – per i leghisti in libera uscita e i moderati in cerca d’autore: che oggi trovano nel Terzo Polo una forza autonoma dal berlusconismo, e in grado di reggere al gioco al massacro scatenato contro Fini.
Soprattutto l’Italia incomincia a prendere atto che forse sta tramontando l’età del populismo, con il carisma che soffia là dove il leader vuole, inventando partiti e disfacendoli su un predellino. Torna la politica, e non eravamo più abituati. E con la politica, torna il diritto di pensare che il cambiamento è possibile, perché l’Italia non è di Berlusconi.