Voi, un argine culturale alla deriva berlusconiana

Raccontami come è cominciata, già il 28 aprile del 1971, la tua collaborazione al manifesto.
La mia prima risposta è molto banale: è venuto Pintor a casa mia e me l’ha chiesto e poiché era tanto simpatico gli ho detto di sì. Ma c’era un’altra ragione. C’era una situazione tipica di una certa sinistra di allora, anche di quella di antiche origini cattoliche come la mia, che non riusciva a identificarsi col Partito comunista italiano. Specie noi della cosiddetta neoavanguardia del Gruppo 63, se eravamo certamente orientati a sinistra, stavamo per così dire sulle scatole alla cultura ufficiale del Pci, ancora guttusiana, pratoliniana, con la sua idea di intellettuale organico che non era compatibile, tanto per fare un esempio, con gli eretici come Vittorini, diffidente verso tante nuove tendenze culturali emergenti, quasi sempre bollate come trucchi insidiosi del neocapitalismo. Una volta il buon Mario Spinella mi chiese di scrivere un lungo articolo su Rinascita per indicare quali erano i problemi che una cultura di sinistra doveva affrontare. Io scrissi di sociologia delle comunicazioni di massa e dello strutturalismo: fui coperto di feci dall’intellighentia del Pci. Mi viene da citare l’attacco dell’allora marxista Massimo Pini, poi finito in An, e un personaggio francese che scrisse «ma cosa diavolo racconta questo Umberto Eco: da un punto di vista marxista lo strutturalismo è inaccettabile». Questo signore si chiamava Althusser e due anni dopo avrebbe tentato il suo celebre connubio tra marxismo e strutturalismo. C’era un clima molto difficile per chi volesse essere di sinistra, senza stare con il Pci. All’epoca l’unica alternativa possibile era con il giro di Lelio Basso e con il manifesto: l’unico modo di essere di sinistra senza venire irreggimentati nel Pci, anche se non era più quello togliattiano che accusava di decadentismo Visconti perché aveva girato Senso ma che tuttavia erano ancora accolte con diffidenza. Tanto per fare un esempio, nel 1962 Vittorini pubblicava il Menabò numero 5, quello dedicato a industria e letteratura, ma proponendo un nuovo modo di intendere l’espressione «letteratura e industria», focalizzando l’attenzione critica non sul tema industriale ma sulle nuove tendenze stilistiche in un mondo dominato dalla tecnologia. Era un coraggioso passaggio dal neorealismo (dove valevano i contenuti più che lo stile) a una ricerca sullo stile dei tempi nuovi, ed ecco che dopo un mio lungo saggio Sul modo di formare comeimpegno sulla realtà apparivano prove narrative molto ‘sperimentali’ di Edoardo Sanguineti, Nanni Filippini e Furio Colombo. Perciò accettai la proposta di Pintor; ma poiché avevo uncontratto per la terza pagina del Corriere della sera non potevo mettere la stessa firma su duequotidiani e scelsi di firmare Dedalus.
Dedalus, una firma di grande prestigio, nel segno di Joyce.
Mi sono divertito come un pazzo a scrivere i pezzi di Dedalus. Ricordo che un po’ di anni dopo Fanfani mi incontrò, agitando la mano e facendo, garbatamente, finta di volermi picchiare. La ragione? Qualche tempo prima sul manifesto avevo scritto: «L’onorevole Fanfani, passeggiando nervosamente sotto il letto…». Altra polemica con Montanelli quando, attaccando la Cederna, aveva scritto che «annusa l’afrore degli anarchici sotto le ascelle». Scrissi: «una volta i polemisti portavano la penna all’altezza del cuore; tu, Indro, sei sceso molto più in basso». Poi Montanelli mi mandò un suo libro con la dedica: «In memoria di un colpo basso ».
Era un uomo di spirito.
Ma in questi quarant’anni ci sono stati grossi cambiamenti. Quali?
Sono stati totali. Il crollo del muro di Berlino, la fine delle ideologie e, di seguito, la fine dei partiti e anche la crisi del manifesto che non ha più nessuno con cui confrontarsi alla sua sinistra.
Vuoi dire che quando facevamo polemica con il Pci avevamo un ascolto e adesso che il Pci non c’è più chi ci sente?
Il cambiamento è stato enorme. Alla fine della seconda guerra mondiale i partiti governavano. In Italia la Dc, il Pci e gli altri ancora. Con la crisi delle ideologie i partiti si sono dissolti in Italia come in Francia, ma paesi come la Francia, appunto, si sono salvati perché lì c’è uno stato, mentre in Italia lo stato è debolissimo. E quindi in Italia siamo senza governo, nelle mani di una anarchia o di minoranze paracriminali, non perché uccidono gente per strada, ma perché sono fuori da ogni legalità.Ma, tornando indietro, ricordo che un’altra ragione della mia collaborazione al manifesto stava nella polemica contro i gruppuscoli, che erano per
l’astensionismo. Per quante simpatie si potessero avere con il cosiddetto movimento, la rinuncia al voto era inaccettabile. Ricordo chemi chiesero di dirigere Lotta continua: cercavano qualcuno che avesse in tasca la tessera dell’ordine dei giornalisti, disposto ad andare in galera. Risposi di no, perché collaboravo con il manifesto, e non potevo tenere il piede in due staffe. Il manifesto era ovviamente legato al clima del movimento, ma apparteneva pur sempre a una sinistra parlamentare. Certo il manifesto sembra aver perduto la sua funzione storica, come il Pci e tutti i gruppi di sinistra. Direi che non siete più un partito ma resistete ancora in questo generale tracollo come una coscienza culturale.
Io lo vorrei ancora.
Bisogna pensarci, nell’attuale carenza di proposte positive, nell’assenza della sinistra: tutto è possibile e tutto è più difficile. Discutevo ieri della bizzarra proposta del colpo di stato di Asor Rosa. Il problema non è cacciare Berlusconi con un colpo di stato, contro il 75 per cento degli italiani, al quale in fondo le cose vanno bene così.
Il 75%, esageri proprio.
Non dico quelli che votano direttamente Pdl, ma quella maggioranza naturalmente berlusconiana che non vuole pagare le tasse, ha voglia di andare a 150 chilometri all’ora sulle autostrade, vuole evitare carabinieri e giudici, trova giustissimo che uno se può se la spassi con Ruby, trova naturale che un deputato vada dove meglio gli conviene. Questa è lamoralità dominante. Berlusconi è un abile e geniale piazzista, che ha capito la sostanza e gli umori dell’attuale mercato politico.
Mi torna in mente il famoso errore di Benedetto Croce, secondo il quale Mussolini era caduto dal cielo e non partorito da noi italiani.
Berlusconi è stato partorito dall’Italia di oggi e ha capito la natura profonda del nostro popolo che non si è mai identificato con lo Stato, che si è sempre massacrato nello scontro tra città e città. Non a caso abbiamo tra i nostri pensatori un Guicciardini. Quindi anche se domani facessi un colpo di stato (che in ogni caso è sempre una cosa cattiva – non ho mai visto colpi di stato «buoni») non cambieresti gli umori del paese. Per cambiarli ci vorrebbe un’azione più profonda, di persuasione ed educazione, e di vere proposte alternative. Ed ecco che tornerebbe buona, se ci fosse, la politica. Però mi pare che la presa di posizione polemica di Asor Rosa nasca dal sentimento (e dalla frustrazione) che il colpo di stato strisciante è già in atto (ma dalla parte
opposta) con l’umiliazione del parlamento, la sua riduzione a un manipolo di yes-men, la delegittimazione della magistratura e quindi la distruzione dell’equilibrio dei poteri, l’occupazione progressiva di tutti i centri della comunicazione. Scrivevo negli anni Sessanta che ormai per fare un colpo di stato non era necessario muovere i carri armati: bastava occupare le televisioni. Lo si sapeva già negli anni Sessanta.
E la differenza tra apocalittici e integrati? Ti ricordi?
È una distinzione molto vecchia, del 1964, superata. Allora c’era una netta divisione tra i critici del sistema delle comunicazioni di massa(pensa a Adorno) e quelli che si identificavano con il nuovo sistema della comunicazione. Questa divisione si è enormemente modificata, pensa alla Pop art, un’arte d’avanguardia che si abbevera alla comunicazione di massa.
La Pop art? Spiegati meglio.
La Pop art ha usato i fumetti, e non per criticarli (come sarebbe accaduto agli apocalittici del decennio precedente). Quindi, ha fatto provocazione d’élite basandosi su materiali una volta considerati bassi. Oppure pensa ai Beatles che – come ha poi intuito Cathy Berberian – potevano essere ricantati come se fossero la musica di Purcell che in qualche modo li aveva ispirati. Musica di intrattenimento,ma coltissima. Pensa a Benigni: fa parte della cultura di massa o della cultura d’élite? Non hai risposta: riesce a fare passare Dante davanti a ventimila persone e cammina come un clown. Ai tempi di apocalittici e integrati non sarebbe
potuto accadere. Pensa anche al romanzo poliziesco che ancora negli anni Cinquanta era roba da vendere nelle edicole, leggere e buttare, e oggi Camilleri fa romanzi accessibili alle grandi masse, ma mediante una forte sperimentazione linguistica.
Visto che ci siamo: confini tra cultura altra e cultura bassa?
Le differenze sono infinite e difficili da identificare. È quasi come in politica: potrebbe essere un gioco di società trovare personaggi di destra all’interno del Pd e di sinistra (ma è impossibile trovarne) all’interno del Pdl.
Quelli di sinistra è proprio difficile trovarli.
Sì, perché anche la nozione di sinistra si è disfatta. Qualcuno, non ricordo chi, ha scritto che la sinistra ufficiale sta facendo l’unica politica conservatrice possibile: difesa della Costituzione, difesa della magistratura, e così via. Difesa anche dei carabinieri, pensa tu se ce lo avessero detto al tempo del Piano Solo.
Ma dall’altra parte c’è di peggio.
Certo: c’è l’attacco alle istituzioni e dunque è naturale che a sinistra si diventi conservatori. I tempi cambiano, vuoi mica che ancora oggi esista la differenza tra cavouriani e mazziniani? La polizia di Scelba manganellava i lavoratori e quella di oggi cerca di salvare i neri dai naufragi.
Gli apocalittici cosa sono diventati?
Gli apocalittici, pian piano, son diventati meno rigidi nel loro rifiuto. Pensa solo a come è andata con il fumetto, che era una delle cose più popolari, diretto a persone di cultura bassa. Poi, proprio noi intellettuali lo abbiamo riscoperto e ne abbiamo fatto un mito. Erano le letture della nostra infanzia, ma anche l’unico modo nel quale abbiamo potuto capire qualcosa dell’America. Ormai il fumetto è diventato una forma di cultura alta, perfino difficile da leggere. Certo i bambini leggono ancora Topolino che resta, più o meno, come una volta. Ma tutte le nuove forme… il fumetto cartonato che si vende nelle librerie, certe volte faccio fatica a leggerlo tanto è raffinato. Quindi quelli che una volta erano i mezzi di massa, contro cui si scagliavano gli apocalittici, oggi possono essere interpretati solo da gente che ha letto Joyce.
Carta stampata e Internet.
Un duello aperto. Sono stufo di sentirmi rivolgere questa domanda. Due anni fa ho pubblicato un libro con Jean-Claude Carrière, Non sperate di sbarazzarvi dei libri. Ovviamente sono un utente di Internet, ho ben otto computer nelle varie case dove capito,ma difendo i diritti e il futuro del libro per una ragione semplicissima: abbiamo la prova scientifica che un libro può durare 550 anni. Prendi un incunabolo, lo apri, sembra stampato ieri e ti permette persino la previsione che forse, se lo lasci in un ambiente poco umido, può durare altri 500-1000 anni.
Non abbiamo nessuna prova scientifica che un dischetto, una chiavetta possano durare più di dieci anni, non tanto perché si possono smagnetizzare,ma perché nel frattempo sarà cambiato il tipo di computer. I computer di oggi non leggono più i dischetti di quindici anni fa. Certo, per me è una grande comodità viaggiare con una chiavetta che contiene tutta la mia biblioteca, però l’unica garanzia del fatto che l’informazione si conservi sta ancora nel libro cartaceo. Detto questo, Internet è una cosa utilissima, pensa a cosa sta cambiando nell’Africa del nord: senza Internet non sarebbe successo niente.
Il manifesto attraversa una nuova crisi. Tu, dicevi, perché ha perduto la sponda del Pci. Ma non è più solo per questo.
Innanzitutto c’è una generale crisi politica. Poi sono in crisi tutti i quotidiani. I giovani non comprano più i quotidiani, preferiscono leggere il giornale gratuito che si prende alla stazione. È un fenomeno generale: se è in crisi anche il Corriere della Sera, che può pagare centinaia di inviati speciali in tutto il mondo, come può non essere in crisi il manifesto? Se è vero che i giovani sono più attenti ai contenuti culturali, l’unica possibilità del manifesto è quella di settimanalizzarsi, non nel senso di diventare settimanale ma in quello di fare continuamente azione di approfondimento. Ha poco senso che il manifesto esca oggi dicendo quel che è accaduto ieri, perché lo ha già detto la televisione. Insomma, ripeto: un quotidiano di approfondimento. Amodo suo Il foglio lo è. Quindi il manifesto dovrebbe essere sempre più un quotidiano di commento, di proposte. È l’unica possibilità di sopravvivenza. Ripeto una mia vecchia polemica: il quotidiano di 64 pagine non mi dà più nessuna notizia perché non faccio in tempo a leggerlo. Nel 1990 mi trovavo nelle isole Fiji dove usciva – lo davano gratis negli hotel – il Fiji Journal, che aveva otto pagine di cui sei di pubblicità, due di notizie locali e una pagina di brevissime notizie. Con quella pagina il Fiji Journal mi ha tenuto perfettamente informato su quanto accadeva in Italia e nel mondo. Allora, o tu diventi il Fiji, quattro pagine al giorno a 20 centesimi, oppure fai 10-12 pagine di approfondimenti, discussioni critiche, polemiche. Non ce la fai a emulare il Corriere della Sera o Repubblica dando più notizie di loro, piuttosto fai una critica dei loro articoli.
Torneresti a collaborare al manifesto?
Non riesco più a tener testa a tutte le cose che devo fare e da quando sono andato in pensione lavoro tre volte tanto. Comunque, lasciami passare l’estate.

5 commenti

  • GIACOBINI OLTRE OGNI RAGIONEVOLE DUBBIO
    È sorprendente scoprire come l’intransigenza politica sia un’infatuazione così CONTAGIOSA. Ci si aspetterebbe – da uomini colti, di consolidata fede progressista – (intervista di Umberto Eco al “Manifesto”), che certe debolezze freudiane, patrimonio della massa anonima soggetta al politichese, fossero ignorate grazie all’apporto della cultura che fa libero l’uomo che la possiede.
    Invece no, anche gli uomini di cultura son preda del fanatismo che fa della politica l’arengo nel quale si conciona da pennuti in lotta per il pollaio. Siamo caduti troppo in basso – come suol dirsi in frangenti simili – o il Gran Padre Dante fu già maestro dei “ghibellin fuggiaschi? (Secondo Foscolo).
    Sembrerebbe, almeno a leggere le storie, che il fanatismo politico prescinda dal sistema che regge il governo di un Paese, ciascuno è preda di questa febbre e si lascia trascinare nel gorgo della passione al di là di qualsiasi freno che dovrebbe imporre morigeratezza nei rapporti controversi fra indefinibili coscienze.
    Non importa se l’età viaggi verso la senescenza, importa che la nostra passione, fanatizzata, riesca a spuntarla facendo di noi stizzosi strumenti del politicare populista.
    Non c’è Platone che tenga, né Cicerone del “De Republica, Lo Stato”, né Rousseau con “Il Contratto sociale” a far da arbitro, né il Machiavelli PRINCIPESCO, o Guicciardini nel “Dialogo del reggimento di Firenze” a frenare gli impulsi sanfedisti di questo e di quello alla ribalta della notorietà: restiamo giacobini a dispetto di qualsiasi formazione intellettuale.
    Celestino Ferraro

  • Con tutto il rispetto dovuto per Liber. e Giustizia, ritengo che altri argini esistano tra i cittani italiani per la difesa della democrazia conosciuta. Sarebbe sconfortante, se così fosse. La chiaccherata di Eco, forse perdutosi nel cimitero di Praga, non aggiunge nulla a ciò che sappiamo già. L’impreparazione della Sinistra e della Destra alla fine del dualismo mondiale. Neppure i sovietoligi statunitensi lo previdero.
    Le vicende nostrane attingono al nostro passato, in una Nazione incompiuta, tenuta strettamente dalle gerarchie vaticane, molto di più di Paesi cattolici a noi vicini. Non sarà solo la cultura a fermare questa deriva.
    Di questo bisognerà riparlare.

  • Due refusi: cittadini e sovietologi nel precedente testo.

    Montanelli ricordava la Controriforma per cercare di comprendere l’influenza della Chiesa nel costume e nella vita politica italiana. Sappiamo che fu Togliatti a votare il Concordato nel secondo dopoguerra. Conosciamo pure le motivazioni.
    Noi, arrivati tardi all’unificazione, non siamo ancora capaci di riconoscerci titolari di diritti e doveri. Non possiamo quindi rifarci ad esperienze di altri Paesi europei; dobbiamo, quindi, inventare nuove strade per arrivarci.

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    PER CAMBIARE GLI UMORI DEL PAESE CI VORREBBE UN’AZIONE DI PERSUASIONE E DI EDUCAZIONE
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    Concordo pienamente con quanto sopra affermato da Eco. Cio’ che a noi Italiani manca – ed é sempre mancato – é un “corretto” senso dello Stato e, più specificamente, una “corretta” relazione dell’ “io” con “gli altri”. Al presente, questa relazione é intesa nel senso che la funzione dell’ “io” – vale a dire del singolo “individuo” – é quella di prevalere su “gli altri”, cioé, sulla Società. É con questa sua funzione di fondo che l’individuo identifica il suo benessere. É nel prevalere sulla Società che l’individuo crede di realizzare se stesso e, quindi, la sua felicità. Perdere questo confronto con la Società significa per l’individuo “malessere”, l’opposto, appunto, del “benessere” che la vittoria gli assicura.

    Non si tratta, in verità, di una problematica esclusivamente Italiana, essendo essa comune a tutte le Popolazioni facenti capo alla Civiltà Capitalista, ma é indubbio che noi Italiani viviamo questa forma mentis in maniera gravemente esasperata.

    La sfida che ci si pone davanti é quella di ribaltare questa errata visione relazionale e rimpiazzarla con quella secondo cui il benessere supremo dell’individuo é – per Legge Biologica – inesorabilmente DIPENDENTE al benessere supremo degli “altri”. Non c’é conflittualità, cioé, – come viene purtroppo erroneamente inteso dalla visione darwinista del Capitalismo – tra benessere “individuale” e benessere “sociale”, ma – al contrario! – c’é perfetta SIMBIOSI. La presente conflittualità é interamente dovuta, infatti, alla cieca credenza che la felicità Umana sia perseguibile attraverso la conquista della condizione relativa all’ AVERE, mentre in realtà é realizzabile SOLO con la conquista della condizione relativa all’ ESSERE.

    ESSERE, nel senso rigorosamente biologico del termine, implica una perfetta “funzionalità” fisio-neurologica unitamente ad un perfetto equilibrio biochimico. É con la perdita di queste due perfezioni che noi siamo stati spinti all’illusoria credenza che l’AVERE fosse il fattore chiave per la realizzazione della nostra felicità. Ed é sulle sabbie mobili di questa credenza che poggia l’intero costrutto capitalista.

    Abbiamo bisogno di una Rivoluzione Culturale che ribalti la presente erronea relazione “io – gli altri”. Ma abbiamo anche – e soprattutto – bisogno di una Rivoluzione fisio-neuro-biochimica dell’Organismo Umano che ribalti la presente sua “disfunzionalità” e ripristini l’originaria “funzionalità” da tanto tempo petrduta.

    Un lavoro arduo e lungo nel tempo. Appunto una sfida. Molto più di una sfida, in verità, perché si tratta della Rivoluzione che l’Umanità NON ha mai fatto, neppure tentato.

    jb Mirabile-caruso.

  • A quale tempo allude Alberto Asor Rosa? (il Manifesto).
    Ho l’impressione che i timori di AAR (e le ubbie di molti suoi colleghi celeberrimi pensatori) siano piuttosto esasperati e che certe soluzioni catartiche auspicate per le democrazie inadempienti (a suo parere), abbiano molto a che vedere con quelle forme autoritarie di governo che il perbenismo insofferente di certa “destra” invoca ogniqualvolta le cose non vanno per il “verso giusto”. Per farla breve, “democrazia”, sarebbe solo un’etichetta che il professore appiccica sul vaso di Pandora nel quale è contenuto l’ancien régime con tutte le sue nequizie.
    Le stesse prevaricazioni esercitate dai governi autoritari, se non dall’assolutismo monarchico, si ripeterebbero, “mutato nomine”, gestite dai carabinieri sempre pronti – a chiamata telefonica – all’intervento fucilatorio per imporre la “legittimità” della democrazia. E non sono, io, uno che batte i piedi indispettito dalla tracotanza del “Gran visir” che stanzia in Palazzo Grazioli; sostengo soltanto (scusate se è poco) che saziarsi di democrazia e contestarne la digeribilità, è gran torto che si fa ad ella, omologandola a quello stereotipo che opprime da sempre “l’homo sapiens”, nato libero per genesi ancestrale.
    Ed anche se il motivo è nobile – impedire l’harakiri della democrazia – resta sempre una tracotanza esercitata senza delega popolare (chi decide qual è il momento di telefonare alle “Pantere” del 112?): che, in fin dei conti, è l’etica pregnante della democrazia.
    Se non si comprende l’ispirazione (metafisica) della democrazia, è vaniloquio dichiararsi di sinistra, di destra, dell’ultrasinistra o dell’ultradestra, restiamo degli attaccabrighe che nell’arzigogolo del politicare hanno riposto le loro speranze di successo. “Io speriamo che me la cavo”.
    Celestino Ferraro

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