Il Palazzo di giustizia di Milano, imponente per la sua mole, i suoi marmi, le scritte giustinianee, il labirinto degli androni e delle aule, fa paura anche a chi vi entra per ritirare un certificato. Figuriamoci il terrore che deve ispirare quel Pantheon costruito da Marcello Piacentini negli anni dello «ius» romano e fascista, a chi innocente non è, sa bene quel che ha commesso, anche se il più incallito delinquente si ritiene, in genere, soltanto un perseguitato. Per coloro, poi, che di processi ne hanno visti tanti e ne sono usciti per il rotto della cuffia, benevolmente assolti, amnistiati, beneficati dalla prescrizione — che non vuol dire assoluzione — e anche, quando possono, autoassolti per le leggi che si fabbricano da sé, come nei Paesi dell’Africa centrale, il palazzo di Milano è un mostro e quegli uomini e quelle donne — i pm — che fanno domande, vogliono sapere, capire, fanno le pulci, sono i figli del mostro, i carnefici. L’indecente e offensivo manifesto appiccicato sui muri di Milano, «Via le Br dalle Procure» che ha angosciato un uomo attento come il presidente Napolitano, non è che un segno di questo clima politico degradato. Tutto tiene. Non aveva parlato, Berlusconi, qualche giorno prima, in una tappa della sua rissa contro la magistratura, di «brigatismo giudiziario»? Anche i significati delle parole vengono spesso capovolti (l’enantiosemia). Come quella scritta sul cancello di Auschwitz, «Il lavoro rende liberi» che accoglieva le povere vittime del nazismo. Una beffa crudele. In questo caso nostrano, una minaccia, una menzogna, un insulto volgare. Saranno certamente state commesse delle ingiustizie, certi magistrati saranno stati e saranno indolenti, pigri, incapaci, ma come dimenticare gli uomini di quel palazzo, come si è detto in questi giorni, che hanno versato il sangue per l’Italia? Emilio Alessandrini, sostituto procuratore della Repubblica, 36 anni, uomo amabile, un compagno di banco. Ucciso dai terroristi di Prima linea il 29 gennaio 1979 all’incrocio tra viale Umbria e via Tertulliano. Aveva accompagnato a scuola il figlio Marco, di nove anni. Stava indagando sulla strage di piazza Fontana. Non aveva la scorta. Giorgio Ambrosoli, avvocato, 46 anni, uomo dello Stato, commissario liquidatore della banca mandata in rovina da Sindona, ucciso dalla mafia politica l’ 11 luglio 1979, in via Morozzo della Rocca, sotto la casa dove abitava. Aveva portato a compimento quel che doveva, senza accettare gli aggiustamenti, i salvataggi che gli venivano pressantemente richiesti dalla politica corrotta. Non aveva la scorta. Guido Galli, giudice istruttore, criminologo, 48 anni, ucciso dai terroristi di Prima linea il 19 marzo 1980 in un corridoio dell’Università Statale. Stava completando un’inchiesta sul terrorismo. Non aveva la scorta, andava al Palazzo di giustizia in autobus. Si dimenticano o si vogliono dimenticare i fatti anche quando sono successi appena ieri? Quel palazzone biancastro di Milano è il posto più nefasto al mondo per il presidente del Consiglio che in quelle aule deve essere giudicato ancora quattro volte, anche se la cupezza del luogo (e del ruolo) gli è stata ammorbidita dai magistrati dal cuore tenero che hanno coperto i gabbioni destinati agli imputati di basso rango con teloni bianchi per non fargli venire cattivi pensieri. Il monumento dell’architetto Piacentini fu protagonista, poi, tra infiniti processi, conflitti, fatti della vita e della morte, di due avvenimenti che hanno segnato la società italiana e vengono volutamente dimenticati o distorti perché tirare le conseguenze delle carte della P2, del 1981, e dell’inchiesta «Mani pulite» , del 1992, avrebbe portato e potrebbe far nascere un Paese diverso, rispettoso delle regole, delle leggi, della Costituzione. Si fa di tutto, da 17 anni, per cancellare la somma Carta costata sangue e dolore. Che riportò l’Italia alla democrazia. La P2, dunque. La mattina del 18 marzo 1981 i due giovani giudici istruttori Giuliano Turone e Gherardo Colombo, che nel palazzo lavorano insieme in una minuscola stanza, aprono le buste sigillate, i plichi sequestrati da una pattuglia della Guardia di finanza di Milano che hanno inviato nell’azienda, la Giole, di Licio Gelli, a Castiglion Fibocchi. Si rendono subito conto di quanto quei documenti siano infuocati: una mina pronta a esplodere nel cuore della Repubblica. Dal 1979 stavano indagando su Sindona, sull’assassinio Ambrosoli, sulla mafia. Altro che club di gentiluomini, come viene detto oggi. Scoprono così la Loggia segreta che viola l’articolo 18 della Costituzione, pericolosa per la sicurezza della Stato. Ne fanno parte due ministri, i capi dei servizi segreti, 34 generali e ammiragli delle tre armi, 5 generali della Guardia di finanza, 12 generali dei carabinieri, 2 generali della polizia di Stato, 44 parlamentari, direttori di giornali, banchieri, magistrati, diplomatici, imprenditori. Turone e Colombo leggono annichiliti, come forzati, 5.000 fogli, li fotocopiano, li nascondono in tre posti diversi, anche fuori dal Palazzo di giustizia. Due mesi dopo cade il governo Forlani, la Loggia viene sciolta, è istituita una Commissione parlamentare d’inchiesta, presieduta da Tina Anselmi, limpida deputata democristiana che da allora subirà vampate di odio e di veleni. Un anno dopo, all’aeroporto di Fiumicino, in una valigia della figlia di Gelli verrà ritrovato il «Piano di rinascita democratica» : Csm responsabile davanti al Parlamento; scissione del sindacato unitario; responsabilità civile dei giudici; sgravi fiscali per agevolare il ritorno dei capitali dall’estero; Rai-tv dissolta in nome della libertà d’antenna; completa revisione della Costituzione. (Anni dopo, l’ 1 novembre 2008, Gelli dirà ai giornali: «Peccato non aver depositato il Piano alla Siae per i diritti d’autore. L’unico che può andare avanti è Silvio Berlusconi, non perché era iscritto alla P2, ma perché ha tempra di grande uomo» ). La P2 nei i diari segreti di Tina Anselmi, a cura di Anna Vinci, libro uscito di recente nelle edizioni Chiarelettere, con saggi della curatrice e di Giuliano Turone, rivela tante verità nascoste, le minimizzazioni, le falsificazioni, le sottovalutazioni, le disinformazioni di cui, con dolo, è stata vittima un’inchiesta che ha scoperto la Loggia inquinata. Poi «Mani pulite» . Si pagava per ogni cosa in quegli anni Novanta, dalle culle alle bare. I rappresentanti dei partiti, tutti, si riunivano placidamente intorno a un tavolo e dividevano le mazzette della corruzione, proporzionalmente, secondo il peso dei voti ricevuti. L’inchiesta si mise anch’essa in moto nel famoso palazzo biancastro così odiato oggi dai tifosi di Berlusconi. La città di Milano e l’intero Paese scoprivano che a fare da selezionatrice non erano il merito, l’intraprendenza, il lavoro ben fatto, ma la corruzione. Che oggi continua, generalizzata in Italia, vista con benevolenza, come documenta, tra gli altri, il Greco, Gruppo di Stati contro la Corruzione creato dal Consiglio d’Europa nel 1999. In quegli anni ci fu un soprassalto di rispetto della legalità. Davanti agli uffici della Procura «maledetta» si formavano lunghe code di manager e di politici per confessare la loro responsabilità e fruire di qualche beneficio concesso dalla legge. L’entusiasmo liberatorio della comunità durò poco, tutto si afflosciò e i magistrati venerati divennero nemici, giustizialisti, i distruttori della prima Repubblica. È di nuovo il 25 aprile. La Resistenza fu una stagione di dignità e di coraggio. Cerchiamo di rispettarla.
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