Asserragliato nel «bunker» del suo feroce crepuscolo, il colonnello Gheddafi, «guida della rivoluzione» come ama definirsi, può avere almeno una magra e maligna soddisfazione: con i suoi 6 milioni e mezzo di abitanti, meno di un millesimo della popolazione del pianeta, la Libia è riuscita a mettere in difficoltà tutto il ricco Occidente, a innescare una nuova, difficile fase della crisi mondiale.
Nelle centrali diplomatiche e nelle capitali finanziarie ogni brandello di notizie che arriva da Tripoli è esaminato con attenzione e con costernazione. Nel giro di pochissimi giorni la crisi libica ha dato il via a un incremento incontrollato dei prezzi del petrolio, anche se dalla Libia proviene appena il 2 per cento della produzione mondiale. L’aumento delle quotazioni del petrolio fa balenare il pericolo di un’ondata inflazionistica derivante dall’aumento di prezzo delle materie prime importate, ossia del tipo più difficile da combattere. Se quest’inflazione diventasse davvero realtà, le politiche economiche sarebbero tutte da rivedere, ma senza che esista una ricetta. E questa prospettiva, unita a dati non confortanti sulla ripresa economica americana ha imposto una brusca battuta d’arresto alla cauta ripresa delle quotazioni che si protraeva ormai da vari mesi.
Della crisi libica hanno paura tutti. Dagli Stati Uniti, dove le ripercussioni alle pompe di benzina potrebbero essere molto rapide e costringere a una revisione radicale della politica economica, alla Cina, costretta a evacuare in fretta e furia migliaia di operai che lavoravano alla costruzione di infrastrutture libiche. Pechino vede compromessa la sua politica di penetrazione in Africa, basata sulla non ingerenza nelle vicende interne di Paesi con i quali ha talvolta un rapporto che può sembrare coloniale. Da Roma, dove l’aver assecondato le plateali stranezze del leader libico nelle sue recenti visite ufficiali pone il governo in una pessima posizione internazionale, mentre tutta la classe politica è chiamata a spiegare perché nei confronti della Libia, per oltre quarant’anni, ha costantemente collocato gli affari al di sopra dei principi; a Bruxelles, rivelatasi priva di qualsiasi linea guida politica e passata in pochi giorni dai meschini dibattiti sugli aiuti da dare all’Italia per fronteggiare l’arrivo dei profughi alla vaga progettazione di un’azione militare per riportare a casa decine di migliaia di europei.
Perché mai, può chiedersi il normale cittadino, siamo arrivati a questo punto di confusione e di debolezza che fa della Libia lo specchio del nostro cinismo miope? La risposta si muove naturalmente su diversi piani, così come su diversi piani si muovono gli impulsi di crisi provenienti da Tripoli. Per quanto riguarda i prezzi del greggio, è bene ricordare che, anche se facciamo il possibile per dimenticarlo, non galleggiamo più su un mare di petrolio: da anni l’aumento della domanda asiatica ha posto una crescente pressione sull’offerta e ha fatto gradatamente salire le quotazioni. L’improvvisa sottrazione dal mercato del 2 per cento della produzione complessiva, rappresentato dalla Libia, può costituire, per usare un’espressione orientale, la pagliuzza in più che, caricata su un cammello, ne spezza la schiena. Tutti gli impianti di estrazione lavorano già a pieno ritmo e la sola Arabia Saudita, Paese non certo privo di problemi interni come mostrano le notizie di questi giorni, ha qualche possibilità di aumentare la produzione. E dipendere dalla benevolenza del Re d’Arabia per evitare una nuova, pericolosa crisi non è certo la più entusiasmante delle prospettive.
Per quanto riguarda l’inadeguatezza dell’analisi politica ed economica, totalmente impreparata all’improvvisa ondata di cambiamento del mondo arabo, occorrerà probabilmente ripartire da zero. Come abbiamo imparato dalle rivelazioni di Wikileaks, i diplomatici occidentali, a cominciare da quelli americani, hanno dedicato le loro energie a comprendere i tortuosi percorsi delle politiche nazionali, le lotte di potere dei vari Palazzi senza mai veramente guardare alla popolazione al di fuori dei Palazzi. Meno cocktails e più giri nei mercati rionali del Cairo, di Tunisi e di Tripoli, avrebbero potuto portare alla conclusione che una fascia importante delle popolazioni arabe proprio non ce la faceva più con l’aumento dei prezzi del pane, del riso, dell’olio.
Ma questo vale solo per l’Africa Settentrionale e il Medio Oriente? Quale valore possono avere le nostre implicite sicurezze che questo mal d’Africa non valicherà il Mediterraneo e non si abbatterà – in forme sperabilmente meno violente – su un’Europa ingiustificatamente compiaciuta? Non è una domanda inappropriata in un giorno in cui Atene è nel caos per uno sciopero generale, punteggiato di disordini, indetto per protestare contro la brutale politica di stabilizzazione imposta da Bruxelles che sta letteralmente ammazzando un’economia di per sé certo non florida.
Insieme ai diplomatici, gli economisti e gli statistici si accorgono che gran parte dei loro strumenti di conoscenza della realtà economico-sociale è del tutto inadeguata. Una delle tante lezioni di Tripoli, di Tunisi e del Cairo è che non si dispone di indicatori del disagio che siano veramente credibili in società sempre più in grado di dare a tutti un telefonino e sempre meno in grado di dare un lavoro per lo meno ai capifamiglia. Anche qui una revisione radicale appare necessaria, così come è necessario per l’Europa, in particolare, domandarsi se i principi di libertà e dignità umana che tanto fermamente proclama debbano poi sempre cedere di fronte a interessi spiccioli.