La Germania che fa da sé

09 Febbraio 2011

Durante la Prima guerra mondiale, Thomas Mann chiedeva ai suoi connazionali: “Vogliamo un’Europa tedesca o una Germania europea?”. Molti anni dopo Helmut Kohl rispose: “Non voglio un’Europa germanizzata ma una Germania europea”. Quale versione darebbe, oggi, Angela Merkel, circondata com’è da un dilagante verdrossenheit, come i tedeschi chiamano il malumore, nei confronti dell’Europa? Probabilmente direbbe “Voglio una Germania tedesca senza l’Europa tra i piedi”, se solo potesse. Quello che è certo è che i tedeschi danno la netta impressione di essere più interessati al boom economico cinese che non alle sorti dell’Europa, e non solo per via del peso economico, oltre che simbolico, che l’export ha in Germania.

Un’Europa, a dire il vero, che sta diventando sempre più irrilevante agli occhi non solo dei tedeschi, ma del mondo intero. Finora non le era mai accaduto, nella sua storia ultra cinquantennale, di trovarsi per un periodo così lungo senza una guida che indicasse la strada o di un motore che facesse da propulsore. Se l’asse franco-tedesco è sempre stata condizione necessaria ma non sufficiente per andare avanti, oggi anche questa condizione minima è venuta meno. La Francia, dice Giuliano Amato, oramai fa solo da spalla alla Germania. E i tedeschi sono passati dai sensi di colpa direttamente ad un senso di superiorità, ad una “pomposità guglielmina” come ha detto il vecchio Cancelliere Schmidt.

Ma “l’Europa”, ha aggiunto Schmidt, “non ha bisogno di alcuna maestrina di scuola tedesca”. Piuttosto, se i governi di Berlino e Parigi continueranno a scansare le loro responsabilità storiche allora il risultato sarà chiaro, nonostante le dichiarazioni rassicuranti dei banchieri centrali: o i mercati si calmano, con l’Europa che entra in un lungo periodo di crescita troppo debole però per sostenere il suo modello sociale, oppure riprenderà l’effetto domino facendo cadere Portogallo, Spagna, Italia e perfino la Francia, determinando la fine ingloriosa dell’euro.

Che fare, dunque? In dicembre, dalle colonne de La Stampa, Emma Bonino ha lanciato la proposta di una federazione leggera che assorba non più del 5% del Pil europeo per finanziare precise funzioni di governo come la difesa, la diplomazia, i grandi programmi di ricerca scientifica, le reti infrastrutturali transeuropee, la sicurezza dei traffici commerciali e delle persone…Questa proposta rimane di grande attualità, soprattutto alla luce dell’opposizione della Germania all’emissione di eurobonds: qualsiasi cosa che possa rimandare anche vagamente ad un’idea di “collettivizzazione dei rischi”, come dice la Cancelliera, resta un tabù inaccettabile per i tedeschi.

Al di là delle divergenze, rimane quindi  l’urgenza di creare un organismo competente in materia fiscale e un bilancio gestiti da un vero Ministro del Tesoro europeo e di proseguire sulla via dell’integrazione politico-istituzionale dell’Eurozona fino a raggiungere l’obiettivo di un unico soggetto federale, gli Stati Uniti d’Europa. La proposta boniniana è un primo passo in questa direzione.

Ma, per avanzare, c’è verosimilmente bisogno di un nuovo motore politico: ovvero di un nucleo duro di paesi, fortemente motivati, che faccia da apripista a nuovi e più ambiziosi percorsi di integrazione. Non di cooperazioni rafforzate, tributarie di procedure pesanti previste dai Trattati, ma di governi “like-minded” pronti a condividere i rischi e l’onere politico di cessioni di sovranità ulteriori per il bene comune di tutti. Non si tratta qui di essere “sponsor” del metodo intergovernativo. Tuttavia, per qualsiasi federalista convinto, la via che privilegia la qualità dell’integrazione è prioritaria rispetto alle discussioni metodologiche. Non è più questa l’epoca in cui il metodo comunitario sia al tempo stesso l’equivalente e la condizione unica dell’integrazione.

E’ stata questa, non dimentichiamolo, la via che ha segnato l’avvio delle più significative realizzazioni politiche dell’integrazione negli ultimi decenni: da Schengen alla Difesa (St Malo), da Galileo all’Euro. E’ la via del coraggio di pochi, che finisce col catalizzare la convergenza di molti.

In questo contesto quale ruolo per l’Italia? Se Parigi continua nella sua miope politica neo-nazionalista, rinunciando alla parte dell’antagonista nei confronti dell’introversione tedesca,  l’Italia potrebbe ritagliarsi una parte rilevante, recuperando la grande tradizione einaudiana, degasperiana e spinelliana. Purtroppo,  i governi Berlusconi di questo decennio, a parte la brevissima parentesi di Ruggiero agli Esteri, hanno sempre considerato l’Europa come un inutile fardello, dando quindi spazio ad un euroscetticismo, spesso anche becero nelle sue manifestazioni, andando contro quelli che sono i nostri interessi nazionali che hanno sempre coinciso con quelli dell’Europa e del suo processo d’integrazione.

Se l’Europa sarà lasciata alla deriva, se rinuncerà ad essere un attore globale, se non diventa una Patria per noi tutti europei, forse rimarrà un gigante economico (non è detto) ma perderà la sua identità politica. Per tornare a Thomas Mann, potrebbe avverarsi il suo monito lanciato in “Considerazioni di un impolitico”: “…un’Europa di una piatta umanità, corrotta in forme triviali, da stampa d’assalto, affarista e gaudente alla Edoardo VII, montecarlesca, letteraria come una cocotte parigina…”. Insomma, un’Europa benestante ma irrilevante, ridotta a mega centro commerciale cinese oppure a grande spa, dove la gente di tutto il mondo verrebbe solo per qualche trattamento speciale, un buon pasto e una passeggiata in mezzo ai ruderi del suo passato glorioso. E’ il caso che i governanti europei rompano questa tendenza al più presto e diano i segnali di leadership che finora sono clamorosamente mancati.

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