“Irricevibile”. Le parole del capo dello Stato sono pietre per il governo. Giorgio Napolitano ha rispedito al mittente il decreto sul federalismo fiscale approvato nella notte dal Consiglio dei ministri. È bastato poco perché il Quirinale traesse le sue conclusioni. Mancano le condizioni per la sua emanazione, e lo dice con chiarezza l’articolo 87 della Costituzione. Mancano queste condizioni, come recita la nota del Colle, “non essendosi con tutta evidenza perfezionato il procedimento per l’esercizio della delega che sancisce l’obbligo di rendere comunicazione alle Camere prima di una possibile approvazione del decreto in difformità dagli orientamenti parlamentari”. Anche chi non è un addetto ai lavori capisce la portata di queste parole. Ancora una volta, Berlusconi ha operato una forzatura scandalosa: un decreto respinto da una Commissione bicamerale è stato riapprovato nella stessa formulazione. E il Quirinale interviene con fermezza, perché il potere esecutivo non può, con un atto d’imperio, annullare il potere legislativo.
La guerra istituzionale si arricchisce così di un altro fronte. Avrebbe dovuto attenderselo Berlusconi. Ma il Cavaliere ha pensato di potere, anche questa volta, violare impunemente le regole democratiche. E, fino a qualche minuto prima dell’intervento di Napolitano, ha cantato vittoria. Dicendosi fiducioso sul consenso del Quirinale. Proclamando la compattezza e la forza della sua coalizione. Attaccando i giudici che “vogliono imporre una Repubblica giudiziaria”.
Una bugia dietro l’altra. La realtà, infatti, è ben diversa. Il premier ha optato per la sopravvivenza a tutti i costi. È stato Bossi a imporre la decretazione d’urgenza, per poter sventolare dinanzi alla sua base, attraversata ormai da pesanti dubbi, la bandiera del federalismo, malgrado la sconfitta politica subita in Bicamerale. Berlusconi ha accettato il diktat del “senatur”. E ciò consolida, almeno in questa fase, il legame tra i due, mettendo ai margini la linea di Maroni, più attenta alle ragioni dell’opposizione. Ma è una resistenza all’insegna della disperazione. E’ vero: la maggioranza ha tenuto, in aula, alla Camera, respingendo con 315 voti le richieste della Procura milanese sul caso Ruby. Sono, però, gli stessi voti, più uno, con cui il governo respinse, il 14 dicembre, le mozioni di sfiducia. Malgrado l’incessante campagna acquisti, il risultato, quindi, non è esaltante. Berlusconi ha soldi, potere, televisione. E può credere di non dover mai ricomparire dinanzi ai giudici, di non rispondere per uno scandalo che in un Paese democratico avrebbe cancellato qualsiasi carriera politica.. Ma la navigazione parlamentare del centrodestra resta precaria. Con i numeri che ha, il Cavaliere non governa. Può chiamare a raccolta tutti i suoi per un voto di fiducia. Ma in condizioni “normali” della vita parlamentare, quando cala la tensione e le forze si disperdono, le insidie sono a ogni passo.
“Tirare a campare” perché è sempre meglio che “tirare le cuoia”. Sembra questa, all’insegna della vecchia regola andreottiana, la linea adottata, in questo momento, dal governo. Ma, in questo modo, si può al massimo galleggiare per qualche mese. Fino a quando la Lega accetterà d’essere baluardo del berlusconismo? Fino a quando Bossi accetterà questo strano destino, basato su un patto di reciproco interesse? A Berlusconi interessa la sopravvivenza politica, a Bossi sta a cuore il federalismo. Ma questa equazione può presto essere smentita da nuovi eventi. C’è fa chiedersi, a questo punto, quali sono le carte che può giocare l’opposizione. Si parla di prove generali per nuove intese, di una “santa alleanza” tra il centrosinistra, senza di Pietro, e il terzo polo di Casini e Fini. Non possiamo negare che anche la tattica abbia il suo peso. Ma, se si continua a operare solo su questo terreno, altre sconfitte sono inevitabili. Non basta un semplice “contenitore” per sconfiggere il berlusconismo.E’ una nuova sfida quella che ci si aspetta dal centrosinistra. Un centrosinistra al tempo stesso fantasioso e intransigente, inflessibile e propositivo. In grado di costruire un’alternativa credibile, capace di spiegare e convincere. Di persuadere la maggioranza del Paese che è ora di voltare pagina.