L’analisi della sconfitta era uno dei più classici strumenti di autoconsolazione, ma anche di autoconservazione della sinistra italiana. Partiva da una spietata ricognizione dei sintomi sociali non avvertiti e non rappresentati, ma si concludeva immancabilmente con l’incrollabile sicurezza della vittoria finale. L’affanno e lo sgomento con i quali il gruppo dirigente del Pd cerca di capire perché i suoi candidati ufficiali finiscano puntualmente perdenti alle primarie dimostra come di quella tradizione si siano perse le due fondamentali caratteristiche: la comprensione della realtà e, soprattutto, la fiducia in una immediata riscossa.
Le risposte a quella angosciosa domanda, così, offrono verità parziali, contraddittorie, perché smentite, magari, dalla consultazione successiva e, comunque, mai in grado di cogliere una motivazione di fondo, sostanzialmente unitaria.
Se vince il fiorentino outsider Renzi, il merito è dell’età. Se trionfa il pugliese Vendola, il motivo è suggerito dalla ribellione alle indicazioni centralistiche della burocrazia romana del Pd. Se il milanese Boeri è sconfitto è perché alla primarie vanno a votare gli elettori più radicali.
La confusione delle spiegazioni produce, naturalmente, un florilegio di ricette tutte lontane dalle motivazioni per cui l’elettorato di centrosinistra esprime il suo distacco, il suo disagio, la sua protesta, persino la sua rabbia contro la dirigenza Pd. Ci si preoccupa perché la scelta di candidati che provengono dall’ala più radicale dello schieramento renderebbe più difficile l’apporto di consensi moderati, senza i quali si vincono le primarie, ma si perdono le elezioni. Si imputa al Pd il presunto fallimento della fusione tra la sinistra cattolica e quella postcomunista e si parla di una crisi di identità di quel partito. Si comincia a scaricare sul segretario tutte le colpe, in vista del prossimo, destinato alla triste sorte del suo predecessore.
Il difetto di tutte queste diagnosi e delle conseguenti terapie è sempre lo stesso: l’ottica. Lo sguardo è costantemente rivolto alle alleanze parlamentari più opportune, alle vecchie ideologie di provenienza dei dirigenti e alle loro lotte interne che necessitano di scaricare le responsabilità sulle altre componenti di quel partito, alle colpe del vertice, di volta in volta troppo socialdemocratico o troppo moderato, poco radicale o poco riformista. Basterebbe, invece, allontanare quello sguardo fuori da sé, smetterla con i vecchi schemi di una vecchia politica, cercare di capire come funziona, oggi, quella nuova e, soprattutto, domandarsi che cosa cerchino disperatamente gli elettori potenziali del centrosinistra, trovandola quasi mai nel Pd.
Eppure, è una scoperta abbastanza semplice. Caduto il sogno dell’ideologia, quella che alimentava le speranze di cambiamento, la fiducia nel futuro, un ancoraggio solido di valori in cui credere, quel popolo ha bisogno di qualcosa che la sostituisca e di persone che, con l’esempio della loro vita, possano restituire l’entusiasmo, la voglia di partecipare a una lotta, la passione per un impegno civile, prima ancora che politico.
Il Pd, dal suo travagliato parto in poi, ha offerto altro. Innanzi tutto, un sostanziale messaggio di conservazione, del tutto contraddittorio rispetto allo spirito di un partito di sinistra, che dovrebbe fare del cambiamento la sua bandiera. Conservare la Costituzione è certamente un bene, perché racchiude valori tuttora validi. Ma non può essere un manifesto mobilitante, poiché, al di là dei grandi principi, si possono adeguare le forme alle esigenze di una moderna democrazia. E’ giusto conservare le tutele sociali, ma come si può pretendere di rispondere, con un vecchio Welfare che aiuta solo gli occupati, alle esigenze dei giovani che non trovano lavoro o lo trovano solo a un insostenibile costo di precarietà? Perché dare sempre l’impressione di opporsi a qualsiasi mutamento nella scuola, nell’università, negli uffici pubblici?
Non dice nulla, alla dirigenza Pd, il grande successo della trasmissione tv di Fazio e Saviano? Perché, nonostante un certo sdolcinato buonismo e l’abuso di retorica, tanti italiani si sentono rincuorati da chi gli dice che la criminalità organizzata può essere sconfitta, se non si ha paura; che i meritevoli, anche se poveri, possono aver successo e che il mutamento è possibile, solo se lo si vuole? Insomma, da chi ridà un sogno perduto al suo popolo e non crede che alla sinistra basti il cinismo di vincere le elezioni con qualsiasi alleato, a qualsiasi prezzo.
Ecco perché non c’entra nulla il riformismo o il radicalismo, il riferimento al cattolicesimo o al tardomarxismo, il gioco delle cordate correntizie o la voglia di sconfiggere il segretario di giornata. Gli elettori delle primarie fanno vincere Renzi, Vendola, Pisapia perché sono in cerca di figure che accendano una speranza di cambiamento e che offrano un progetto di futuro che riscaldi anche il cuore. Perché, nella politica di oggi, l’emozione conta come la ragione. Del resto, con tutti i limiti che conosciamo, non si può dimenticare che Veltroni, a Torino, nel famoso discorso al Lingotto, seppe far intravedere un programma accattivante, capace di attirare molto interesse, se non entusiasmo. Tanto è vero che il risultato elettorale fu tutt’altro che disprezzabile, pur scontando le delusioni di una travagliatissima esperienza governativa.
Nanni Moretti, circa dieci anni fa, preconizzava una sicura sconfitta elettorale del centrosinistra, se l’antenato del Pd non avesse radicalmente cambiato tutta la sua dirigenza. Sbagliava, perché non sempre è andata così. Ma aveva ragione quando pensava che quello schieramento avrebbe perso magari non i voti della sua gente, ma le loro anime.