Ci si può anche svagare e chiamare il direttore del giornale di Silvio Berlusconi Brighella. Brighella, come la maschera della commedia dell´arte che nasce nella Bergamo alta: un attaccabrighe, un briccone sempre disponibile «a dirigere gli imbrogli compiuti in scena, se il padrone lo ricompensa bene». Un bugiardo che di se stesso può scrivere senza arrossire: «Sono insofferente a qualsiasi ordine di scuderia, disciplina, inquadramento ideologico. Mi manca la stoffa del cortigiano». La canzonatura finirebbe per nascondere un meccanismo, un paradigma che trova nell´uomo che dirige il giornale del Capo soltanto un protagonista di secondo ordine e nel lavoro sporco, che accetta di fare, solo uno dei segmenti di un dispositivo di potere. Tuttavia. Da qui è necessario muovere. Dal mestiere del direttore del giornale di Berlusconi in quanto la barbarie italiana, che trasforma in politica la compravendita del voto e quindi la corruzione di deputati e senatori, definisce informazione – e non violenza o abuso di potere – la torsione della volontà, la sopraffazione morale di chi dissente dal Capo attraverso un´aggressione spietata, distruttiva, brutale che macina come verità fattoidi, mezzi fatti, fatti storti, dicerie poliziesche, irrilevanti circostanze, falsi indiscutibili. Un´atrocità che pretende di restare impunita o quanto meno tollerata perché, appunto, giornalismo. Ma, quella roba lì, la si può dire informazione? È un giornalista, il direttore del giornale di Silvio Berlusconi? Il suo mestiere è il giornalismo?
Vediamolo al lavoro nel “caso Boffo”, quindi nel momento inaugurale in cui egli mette a punto quel che, con prepotente mafiosità, gli uomini vicini al capo del governo definiscono ora “il metodo Boffo”.
Sappiamo come sono andate le cose. Dino Boffo critica, con molta prudenza, lo stile di vita di Berlusconi e si ritrova nella lista dei cattivi. Dirige un giornale cattolico e non può permettersi di censurare il capo del governo. Deve avere una lezione che dovrà distruggerlo senza torcergli un capello. Il colpo di pistola che liquida il direttore dell´Avvenire è la prima pagina del giornale di Berlusconi. Sarà presentato così: “Dino Boffo, alla guida del giornale dei vescovi e impegnato nell´accesa campagna di stampa contro i peccati del premier, intimidiva la moglie dell´uomo con il quale aveva una relazione”. Le prove dell´omosessualità di Boffo? Non ci sono. L´unico riscontro proposto – un foglietto presentato come “la nota informativa che accompagna e spiega il rinvio a giudizio del grande moralizzatore” – è uno strepitoso falso. In un Paese non barbarico il giornalista autore di quello “sconclusionato e sgrammaticato distillato di falsità e puro veleno costruito a tavolino per diffamare”, come scrive Boffo, avrebbe avuto qualche rogna. Forse avrebbe visto irrimediabilmente distrutta la sua reputazione perché, caduto l´Impero sovietico, la calunnia consapevole non può essere definita giornalismo. Non accade nulla. Anche i petulanti “liberali” – intimoriti o complici – tacciono, ieri come oggi. Si rifiutano di prendere atto che in quel momento – agosto 2009 – si inaugura la metamorfosi di un minaccioso dispositivo politico che già si era esercitato – con un altro circuito, con altri uomini – tra il 2001 e il 2006.
Nella XIV legislatura, durante il II e il III governo Berlusconi s´era già visto all´opera un network di potere occulto e trasversale concentrato nel lavoro di disinformazione e specializzato in operazioni di discredito. Un “apparato” legale/clandestino scandaloso, ma del tutto “visibile”. Era il frutto della connessione abusiva dello spionaggio militare (il Sismi di Nicolò Pollari) con diverse branche dell´investigazione, soprattutto l´intelligence business della Guardia di Finanza; con agenzie di investigazione che lavorano in outsourcing; con la Security privata di grandi aziende come Telecom, dove è esistita una “control room” e una “struttura S2OC” «capace di fare qualsiasi cosa, anche intercettazioni vocali: poteva entrare in tutti i sistemi, gestirli, eventualmente dirottare le conversazioni su utenze in uso, con la possibilità di cancellarne la traccia senza essere specificatamente autorizzato». Ricordiamo quel che accadde (ormai agli atti e documentato). Dopo la vittoria elettorale di Silvio Berlusconi, questa piattaforma spionistica pianifica operazioni – «anche cruente» – contro i presunti “nemici” del neopresidente del Consiglio. Ne viene stilato un elenco. Si raccolgono dossier. Quando è necessario si distribuiscono nelle redazioni amiche, controllate o influenzate dal potere del Capo e trasformate in officine dei veleni. Per dire, il giudice Mario Vaudano è un “nemico”. Pochi lo conoscono, ma ha avuto un ruolo fondamentale nell´inchiesta Mani Pulite. Era in quegli anni al ministero di Giustizia e si occupava delle rogatorie estere richieste dal pool di Milano. Se ne occupava con grandi capacità e la sua efficienza lo trasforma in una “bestia nera” da annientare. Tanto più che il giudice – incauto – vince un concorso per l´Ufficio europeo per la lotta antifrode (OLAF: protegge gli interessi finanziari dell´Unione europea, contrastando la frode, la corruzione, ogni altra forma di attività illegale). La nomina di Mauro Vaudano «viene bloccata personalmente da Berlusconi» (Corriere della sera, 11 aprile 2002) mentre si mette in moto il dispositivo. Un ufficio riservato del Sismi spia il bersaglio (anche la moglie francese del giudice, Anne Crenier, giudice anche lei, scoprirà e denuncerà di essere stata spiata dal Sismi con intrusioni nella sua posta elettronica). Il fango raccolto sarà depositato nella redazione del giornale di Berlusconi. Campagna stampa. Intervento del ministro di giustizia che alla fine avvierà contro il povero giudice un´inchiesta disciplinare. Qui non importa capire se queste mosse sono configurabili come reato. È necessario comprenderne il movimento, isolare i protagonisti, afferrare i modi e l´azione di un potere micidiale – politico, economico, mediatico – capace di stritolare chiunque. È un potere che si dispiega in quegli anni, come oggi, contro l´opposizione politica, contro uomini e istituzioni dello Stato rispettose del proprio ufficio pubblico e non piegate al comando politico, contro il giornalismo non conforme. Una commissione d´inchiesta parlamentare – Telekom Serbia – diventa fabbrica di miasmi. Con lo stesso canone. Si scova un figuro disposto a non andare troppo per il sottile. Si chiama Igor Marini. Lo presentano come consulenze finanziario, come conte, è un facchino dell´ortomercato di Brescia. Lo si consegna ai commissari e quindi alla stampa amica. Quello diventa un fiume in piena. Rivelazioni clamorose accusano l´intero vertice dell´opposizione (Prodi, Fassino, Dini, Veltroni, Rutelli, Mastella). Il giornale del Capo dedicherà trentadue (32) prime pagine alle frottole di quel tipo oggi in galera per calunnia. Alla vigilia delle elezioni 2006 la consueta macchina denigratoria si muove ancora contro Romano Prodi, leader dell´opposizione. L´ufficio riservato del Sismi prepara un falso documento. Lo si accusa di aver sottoscritto accordi tra Unione europea e Stati Uniti che legittimano i sequestri illegali della Cia come il rapimento in Italia di Abu Omar. Il dossier farlocco sarà pubblicato su Libero, direttore Vittorio Feltri, dal suo vice Renato Farina, ingaggiato e pagato dal Sismi, reo confesso («… ammetto i rapporti intrattenuti con uomini del Sismi in qualità di informatore, ammetto di avere accettato rimborsi dal Sismi, ammetto di aver intervistato i Pm Spataro e Pomarici per carpire informazioni da trasmettere al Sismi…»), condannato a sei mesi di reclusione per favoreggiamento, radiato dall´Ordine dei giornalisti, oggi parlamentare del Popolo della libertà.
In questi casi scorgiamo un antagonista che irrita o inquieta il Capo, l´attività storta di un istituzione, il ruolo decisivo dell´informazione controllata dal Capo. Quel che accade a Vaudano e Prodi sono soltanto due campioni di un catalogo che, nella XV legislatura – questa – ha trovato altri protagonisti e un nuovo schema di lavoro a partire da una solida convinzione: la politica è del tutto mediatizzata, ogni azione politica si svolge all´interno dello spazio mediale e dipende in larga misura dalla voce dei media. È sufficiente allora fabbricare e diffondere messaggi che distorcono i fatti e inducono alla disinformazione, fare dello scandalo la più autentica lotta per il potere simbolico, giocare in quel perimetro la reputazione dei competitori, degli antagonisti, dei critici, soffocare la fiducia che riscuotono, e il gioco è fatto. Rien ne va plus. È un congegno che impone al giornalismo di essere più rigoroso, più lucido, più consapevole.
Altra storia se si parla del Brighella che dirige il giornale del capo del governo. Bisogna coglierne il ruolo, nel congegno, e definirne il lavoro. Vediamo il suo modus operandi. Individua il nemico del Capo da colpire, magari se lo lascia suggerire anche se non gli “manca la stoffa del cortigiano”. Raccoglie tutte le informazioni lesive che si possono reperire, fabbricare e distorcere intorno a un fatto isolato dal suo contesto. È una pratica che ha un nome. Non è una pratica giornalistica. È, negli Stati Uniti, la componente chiave di ogni campagna politica. Si chiama opposition research. Per farla bisogna “scavare nel fango”, come racconta uno dei maestri di questo triste mestiere, Stephen Marks. Colpito da una certa stanchezza morale e personale, Marks ha rivelato le sue tattiche e quelle della sua professione in un libro intitolato “Confessioni di un Killer Politico”, Confessions of Political Hitman. È abbastanza semplice il lavoro, in fondo. I consulenti politici del Candidato indicano chi sono gli uomini più pericolosi per il suo successo. I sondaggisti individuano quali sono le notizie che possono maggiormente danneggiare il politico diventato target. Ha inizio la ricerca. Documenti d´archivio, dichiarazioni alla stampa, episodi biografici, investimenti finanziari, interessi finanziari, dichiarazioni di redditi, proprietà e donazioni elettorali. Insomma, una ricostruzione della vita privata e pubblica del politico preso di mira. A questo punto le informazioni raccolte selezionate tra le più controproducenti per l´avversario da distruggere vengono trasformate in messaggi ai media e in informazioni lasciate trapelare ai giornalisti. Questo è il lavoro del “killer politico” e bisognerà dire che, anche se nello stesso ramo dell´assassinio politico, l´impegno del direttore del giornale di Berlusconi è più comodo. Non ha bisogno di fare molte ricerche. Se gli occorrono documenti qualche signore, per ingraziarsi il Capo, glieli procura. In alcuni casi, è lo stesso Capo che si dà da fare (è accaduto con i nastri delle intercettazioni di Fassino, consegnati ad Arcore e da lui smistati al giornale di famiglia; è accaduto con il video di Marrazzo).
L´informazione è, in questo caso, politica senza alcuna mediazione e potere senza alcuna autonomia perché l´una e le altre sono nelle mani del Capo. Quindi, se non ci sono in giro carte autentiche, si possono sempre fabbricare come nel “caso Boffo”. Se non si vuole correre questo rischio, si può sempre ripubblicare quel che è stato già pubblicato, metterci su un bel titolo disonorevole e ripeterlo per due settimane. Colpisci duro, qualcosa si romperà. Per sempre. Questa è la regola. Chi colpire? No problem. Sa da solo chi sono i “nemici” del suo Capo. Quel Fini, ad esempio. Subito lo definisce “il Signor Dissidente”. È il dissenso che è stato chiamato a punire. Lo sa riconoscere nella sua fase aurorale. Scrive: «Il Signor Dissidente non è stato zitto. Anzi, ha parlato troppo (…) ha ribadito le critiche al governo e al suo capo, la sua contrarietà alla politica sull´immigrazione, alle posizioni della Lega in proposito, alle leggi sulle questioni etiche». Il Signor Dissidente parla? Deve essere punito. Come? Il direttore annuncia: «È sufficiente – per dire – ripescare un fascicolo del 2000 su faccende a luci rosse riguardanti personaggi di Alleanza nazionale per montare uno scandalo. Meglio non svegliare il can che dorme». (Il Giornale,14 settembre 2009).
Il “giornalismo” di Vittorio Feltri è questo: minaccia, violenza, abuso di potere. Non importa sapere qui se è anche un reato. Dopo il character assassination in serie di questi dodici mesi, ne sappiamo abbastanza per giudicare. Ora non è rilevante conoscere se a questo “assassino politico”, dunque a un professionista di una “macchina politica” e non informativa, si deve riconoscere lo status di giornalista. Non glielo si può riconoscere. È un political hitman. È un altro mestiere. Non è un giornalista. Non è lui il problema. Il problema è il suo Capo. Come non è in discussione la libertà di informare o la libertà di fare un giornalismo d´inchiesta. Quel che si discute è la minaccia che precede il lavoro d´inchiesta; è un giornalismo, un finto giornalismo agitato, come nel caso di Emma Marcegaglia, quasi fosse un manganello per fare piegare il capo al malcapitato. Quel che è importante adesso sapere è quanti sono nella vita pubblica italiana coloro che, ricattati dal Capo con questi metodi, tacciono? O spaventati da questi metodi tacceranno? Con quale rassegnazione si potrà accettare un congegno che consegna al capo del governo la reputazione di chiunque, come una sovranità sulle nostre parole, pensieri, decisioni?