ROMA – Quando chiamano Fini e gli spiegano che cosa sta succedendo sle intercettazioni lui ascolta e poi, guardingo, interrompe l’interlocutore: “Ma siamo proprio sicuri che vada a finire così? Perché se veramente fosse così, allora vorrebbe dire che stavolta hanno dovuto accettare la nostra linea”.
Poi raccomanda prudenza: “Stiamo attenti, non ci sbilanciamo prima di aver letto bene le carte, perché l’esperienza di queste leggi c’insegna che il tranello si può nascondere anche in una sola virgola”.
È fatto così Gianfranco Fini. Uomo freddo anche nel giorno in cui tutti gli accreditano una secca vittoria e lui potrebbe scatenare il suo gruppo. Invece i finiani ricevono l’ordine di stare nelle righe. Di essere e mostrarsi diffidenti. E tutti sono cauti, proprio mentre al Senato i berluscones sono costretti ad arrampicarsi sugli specchi per accreditare un testo che cambia “per volontà del Quirinale”, pur sapendo bene che i rilievi del Colle sono gli stessi dei finiani. Ma il co-fondatore del Pdl non vuole strafare. Gli hanno riferito i giudizi di fuoco di Berlusconi contro di lui pronunciati 24 ore prima in via del Plebiscito, li memorizza, ma preferisce guardare al risultato. Che è sotto gli occhi di tutti: la legge sulle intercettazioni cambiata per l’ennesima volta, addirittura la terza in meno di un mese, dopo le sue richieste. E con la lente d’ingrandimento ancora puntata su quella proroga di 48 ore in 48 ore che potrebbe stressare le indagini e di fatto bloccarle.