La minaccia, Silvio Berlusconi, l’aveva formulata la notte del voto, lunedì 29 marzo, giorno dedicato dal calendario a San Secondo Martire: “E ora basta con chi si mette in mezzo, guai a chi proverà ancora a remare contro”. Il bersaglio, naturalmente, era Gianfranco Fini, l’unica voce autorevole del dissenso, quello che aveva sempre marcato il proprio malessere per il legame sempre più stretto tra Pdl e Lega, per una dinamica politica che portava il “grande partito del centrodestra” a diventare una “fotocopia del Carroccio”. Ma, probabilmente, il Cavaliere non pensava che le cose sarebbero così rapidamente precipitate, fino a rendere verosimile l’ipotesi di una separazione a poco più di due settimane da un risultato elettorale da lui considerato “ampiamente positivo”. Del resto, quante volte, in passato, l’ex capo di An ha minacciato rotture e poi si è accontentato di un compromesso? Oggi, però, le cose sono assai più complicate e restringono i margini di mediazione. Il presidente della Camera sta facendo un tentativo estremo per garantirsi la possibilità di un futuro all’interno del partito del Popolo della libertà. E, quindi, pone questioni di strategia, non di semplice redistribuzione di quote d’influenza: stop al protagonismo della Lega, una regolata al ministro del Tesoro Tremonti, un proprio ruolo riconosciuto e significativo nel partito e nel processo che deve portare alla riforma della Costituzione. Ma il Cavaliere ostenta disinteresse per questi temi.
Per lui, questi sono problemi che “non esistono e non sono mai esistiti”. L’asse con la Lega non va messa in discussione. La diarchia con Bossi gli sta benissimo perché l’esito elettorale è stato favorevole al governo. Lui non ragiona come un segretario di partito. A lui interessa il risultato finale.
Le previsioni, in questo momento, sono azzardate. Crisi irreversibile del Pdl a poco più di un anno dalla sua nascita? Gruppi autonomi in Parlamento per i seguaci di Fini se Berlusconi si appiattisce sulla Lega? La cosa certa è che l’idea della politica, praticata dall’ex capo di An e dal Cavaliere, è diventata ormai inconciliabile. Li divide l’approccio alla riforma costituzionale; il rapporto con le istituzioni, come testimonia il sostegno dato da Fini al Quirinale e alla Consulta quando è stata attaccata da Berlusconi; il contesto in cui è collocata la riforma della giustizia; la soluzione da dare ai problemi dell’immigrazione. Anche la bussola con cui si guarda ai diritti fondamentali della persona è totalmente diversa: si pensi al caso Englaro e al provvedimento sul testamento biologico in discussione alla Camera. In definitiva, rispetto alla distorsione delle garanzie costituzionali, portata avanti senza remore dal fronte berlusconiano, Fini ha offerto l’unica resistenza apprezzabile nel campo della destra. Ha riportato la barra della politica sul rispetto dei valori fondanti che legano i cittadini allo Stato. Ciò gli è valso le simpatie di quanti vogliono una destra “moderata” e “diversa”, di taglio europeo, e anche il rispetto della sinistra.
Ma non gli ha portato voti. Anzi, la risposta elettorale è stata di segno negativo. An può contare su qualche radicamento al Sud e sul baluardo nel Lazio. Ma anche qui le cose non sono andate bene per Fini. La sua ex pupilla, Renata Polverini, appena eletta, si è legata mani e piedi a Berlusconi. E il sindaco di Roma, Alemanno, si è già candidato a rappresentare nel Pdl la destra sociale rimasta orfana di leader.
Su questi dati fa affidamento Berlusconi. Che ha opposto una netta obiezione alle rivendicazioni di Fini. Gli uomini del Cavaliere fanno i conti e mostrano di non temere l’ipotesi “scissione” che è entrata nel lessico del centrodestra. Anzi, hanno avvertito i possibili transfughi che, se lasciano il partito, rischiano di trovarsi presto fuori dal Parlamento, essendo abbastanza probabile un anticipato scioglimento delle Camere. Su questo tema Berlusconi non si scopre, anche se si sa che accarezza la prospettiva di tornare alle urne, convinto com’è di vincere l’ultimo e definitivo referendum sul suo nome, da cui gli verrebbero aperte le porte per il Quirinale. In ogni caso, ha mandato in avanscoperta il presidente del Senato, Renato Schifani, che dovrebbe rappresentare la seconda carica della Repubblica, ma si muove come faceva quando era il capo dei senatori di Forza Italia. E, da perfetto ventriloquo del Cavaliere, Schifani ha affermato che “quando una maggioranza si divide non resta che dare la parola agli elettori”.
Tuttavia, lo scenario è assai più complicato di quanto non dicano certe semplificazioni interessate.
Non è facile forzare la volontà del Quirinale per ottenere le elezioni anticipate. E, non a caso, Fini si è mosso subito per far sapere che le sue mosse non mirano a mettere in discussione la durata della legislatura. A Berlusconi conviene, quindi, giocare su più tavoli. E non far precipitare la situazione se non si è prima verificata la possibilità di un compromesso. Su questa strada, sembra muoversi la decisione di riunire per giovedì prossimo la direzione del Pdl, allargata ai gruppi parlamentari. Il presidente della Camera mostra di apprezzare, e smorza le polemiche. Non resta che attendere. Del resto, il Cavaliere è uomo dalle grandi risorse, nelle fasi di difficoltà, potendo contare su varie possibilità (comprese convincenti prebende) per regolare i conflitti interni. Più difficile è la partita per Fini se si lascia portare sulla strada di ambigui aggiustamenti. Destinati a durare quanto le buone intenzioni professate in passato.
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