E’ il 23 gennaio 1967. Da due anni è cominciata in Italia la battaglia per il divorzio. In seguito ad un voto della commissione Affari costituzionali della Camera che esclude la necessità di una riforma costituzionale per introdurre questo istituto nel nostro ordinamento, Paolo VI pronuncia un discorso di netta condanna del divorzio suscitando vivaci proteste delle forze laiche, dai liberali ai comunisti. E’, quello di papa Montini, un assurdo ritorno alle polemiche di vent’anni prima quando, alla Costituente, in sede di elaborazione dell’art. 29 della Carta (“La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio”), la Dc e l’Msi avevano imposto – nella Commissione dei 75 – l’aggiunta di un aggettivo alla parola matrimonio: “indissolubile”. Poi però l’Assemblea aveva deciso di sopprimere quell’aggettivo-catena tagliando le gambe proprio alla tesi che Paolo VI avrebbe rispolverato nel fuoco di una battaglia parlamentare che era già in atto da tempo senza esito positivo per l’accanito ostruzionismo del centro-destra.
Ma nel ’70, nel vivo dell’autunno caldo e della sempre più serrata battaglia per introdurre il divorzio, la Dc fa sapere di essere disposta a cessare l’ostruzionismo se a sua volta lo schieramento (maggioritario) che sostiene le proposte di legge tese a restituire la libertà ai coniugi già separati si impegna ad approvare rapidamente la legge regolatrice del referendum. Previsto dalla Costituzione, questo istituto era rimasto sin qui lettera morta, come le Regioni e la Corte costituzionale.
Giovanni Leone, allora presidente della Camera, gestisce e porta a buon fine lo scambio. Il segretario della Dc Amintore Fanfani crede così di offrire al fronte antidivorzista lo strumento per eliminare l’odiato divorzio quando esso sia introdotto nell’ordinamento giuridico.
E infatti, appena la duplice operazione va in porto, i Comitati civici guidati da Luigi Gedda presentano la richiesta di liquidazione dell’appena approvata legge sul divorzio. Il 27 febbraio ’72 lo stesso Leone, che nel frattempo è diventato capo dello Stato con i voti determinanti dell’Msi, firma il decreto che fissa per l’11 giugno il referendum abrogativo del divorzio. Ma già l’indomani, per evitare il pronunciamento popolare, il capo dello Stato decreta lo scioglimento anticipato delle Camere con il conseguente rinvio del referendum. Due anni dopo, però, la scadenza referendaria si ripropone e stavolta è impossibile ricorrere di nuovo al colpo di mano della interruzione traumatica della legislatura.
Allora Fanfani gioca il tutto per tutto. Con le ultime elezioni politiche i due partiti antidivorzisti hanno ottenuto il 47,4% dei voti? Basta allora procurarsi – ragiona il leader dc – ancora un milione di “sì” all’abrogazione, e il gioco è fatto. Per questo Fanfani corre da un capo all’altro del Paese a spiegare che, con il divorzio, “vostra moglie fuggirà con la cameriera” (testuale, a Caltanissetta). Ma l’Italia è matura, e maturi sono tanti cattolici: il “no” all’abrogazione del divorzio vince nel maggio ’74 con il 59,1%, e il Sud non è una Vandea come temevano tanti laici, compresi alcuni dirigenti del Pci (ma non le dirigenti, da Nilde Iotti a Adriana Seroni, da Giglia Tedesco a Marisa Rodano).
Strepitoso il commento di Giorgio Forattini, che a quell’epoca firmava le vignette per “Paese Sera” e non era ancora passato al trust editoriale di Berlusconi. Disegnò un Amintore Fanfani che saltava, come un tappo, da una bottiglia di champagne. E saltò davvero: resistette solo qualche mese al clamoroso smacco per poi capitolare dimettendosi da segretario della Dc.
Più tardi si è riproposto (e di recente la discussione è sfociata nella presentazione di alcune proposte legislative sostanzialmente analoghe) il problema della durata del periodo che deve intercorrere tra separazione sancita dal giudice e divorzio. Inizialmente la legge prevedeva un tempo di cinque anni. Ci si rese presto conto che il periodo era esasperatamente lungo. Cominciarono difficili e lunghe trattative dei laici con la Dc per modificare la legge, riducendo i tempi per ottenere lo scioglimento del vincolo. Finalmente nell’inverno ’83-’84 si giunse ad un accordo: tre anni. La modifica fu approvata dal Senato alla vigilia dello scioglimento anticipato della legislatura. Lo scioglimento del Parlamento era imminente, questione di ore, e mancava il voto di conferma del provvedimento da parte della Camera. Allora la presidente Nilde Iotti (che avrebbe voluto la riduzione non a tre ma a un solo anno, ma la maggioranza era di altro avviso) prese l’iniziativa irrituale di convocare d’urgenza, ad horas, la commissione Giustizia: ottenne l’approvazione della modifica nella cosiddetta sede legislativa, “saltando” il momento della discussione e della votazione da parte dell’assemblea.
Era fatta: appena qualche ora prima che le Camere fossero sciolte. Ora le nuove proposte che saranno presto calendarizzate per l’esame in commissione: quella del Pd, prima firmataria l’onorevole Sesa Amici prevede appunto che basti un anno per ottenere il divorzio.
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