Sembra ovvio che le donne abbiano il diritto di votare e di essere elette. E ai più parrà scontato che questo diritto (come quello di esercitare le professioni di magistrato, di prefetto, di diplomatico) risalga alla notte dei tempi. Niente vero, non è affatto così. Cominciamo con il diritto di voto. C’è voluto quasi un secolo perché questo essenziale diritto democratico si affermasse: proprio nei prossimi giorni cadrà infatti l’anniversario di un decreto luogotenenziale del 1945 – c’era ancora il “re di maggio” Umberto II – con cui, alle viste delle prime elezioni amministrative nelle zone del Paese già liberate da tedeschi e fascisti, il governo Bonomi sancì: “Il diritto di voto è esteso alle donne”. Quindici mesi dopo, alla vigilia del referendum istituzionale e delle elezioni politiche per la Costituente (2 giugno 1946), una nuova legge affermerà solennemente che sono elettori “tutti i cittadini e cittadine italiani maggiorenni”.
Paradossalmente la storia, nel passato, aveva persino camminato all’indietro. La legge del 1866 per l’unificazione della legislazione della “nuova Italia” aveva infatti privato del diritto di voto amministrativo le donne della Toscana e del Lombardo-Veneto che se l’erano conquistato da tempo, grazie a granduchi e imperatori a loro modo illuminati. Poi, con l’Unità, una lunga serie di bocciature e di affossamenti di progetti favorevoli al voto femminile pur in forme e modalità assai limitate. Nel 1871, ad esempio, il presidente del Consiglio e ministro dell’Interno Giovanni Lanza (Destra storica) aveva proposto che le donne potessero votare, ma solo per le amministrative, “mandando il loro voto per iscritto” (insomma, che per carità non si presentassero ai seggi).
Progetto decaduto. Come dieci anni dopo quello proposto da Agostino Depretis: voto “per delega al marito” delle donne sposate! Poi comunque l’esponente della Sinistra si ripensò: “La donna ha altri mezzi d’influenza, di azione, assai più potenti del voto” (“Ilarità prolungata”, annotava negli atti parlamentari il resocontista d’aula). E quando, tempo dopo, si votò per introdurre il suffragio solo “delle insegnanti e delle laureate”, l’emendamento venne respinto.
Il cieco conservatorismo raggiunge l’acme nel 1912 con Giovanni Giolitti, che pure aveva avuto un ruolo decisivo nell’abolizione del voto per censo e quindi nell’estensione del diritto di voto almeno tutti gli uomini. E le donne? Eh no: “Equivarrebbe – disse – ad un salto nel buio: trasformerebbe radicalmente la vita politica”. E puntualmente non se ne fece nulla. Col fascismo, poi, si arrivò alla truffa demagogica. Con la presa del potere di Mussolini venne infatti sì riconosciuto alle donne, sulla carta, il diritto di voto per i comuni. Salvo poi, prima che si svolgesse una qualsiasi consultazione, ad abolire il carattere rappresentativo dei poteri locali: cominciò la lunga stagione dei podestà e dei governatori. Solo con la Liberazione…
Già, e per le professioni pubbliche di cui ho accennato all’inizio? Dovranno passare quindici anni dalle solenni affermazioni della Carta costituzionale, e ci vorranno il ricorso di una funzionaria del ministero dell’Interno e una sentenza della Corte costituzionale (la n.
66 del 1963) perché le donne potessero essere ammesse alle carriere non solo di prefetto (all’origine del ricorso, considerato “non manifestamente infondato” da un magistrato-uomo), ma anche di diplomatico (la prima donna ministro plenipotenziario fu spedita prima in Corea del sud, ma poi nella Repubblica popolare cinese) e di magistrato. Oggi ci sono interi collegi giudicanti composti da sole donne (da ultimo quello che, dopo la condanna del corrotto avvocato Mills, dovrà giudicare il corruttore, se non ci saranno “impedimenti”) per non parlare dei giudici minorili e dei pm. E (quasi) tutti credono che le donne siano “ammesse” da sempre. No, appena da quarantaquattro anni. Lunga e faticosa è ancora oggi, la marcia delle donne. Ma vincente.
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