Con parecchi mesi di ritardo Veltroni ha cominciato a Torino un viaggio nel partito che avrebbe dovuto iniziare subito dopo la sconfitta elettorale. La richiesta, che gli arriva oggi da vecchi e nuovi militanti sull’orlo di una crisi di nervi è dappertutto la stessa: dicci chi siamo, quale è la nostra “identità”.
Il bello è che questa domanda di “identità” l’ho sentita avanzare anche da illustri dirigenti del partito, più o meno vicini al segretario. “Ci dici di tornare a distribuire i volantini, ma che cosa ci scriviamo sopra?” ha chiesto Laura, coordinatrice di un circolo torinese, al segretario, imbracciando, dicono le cronache, “il suo miglior sorriso”.
A prima vista sembra che gli ex Ds e gli ex Margherita nell’immane sforzo di fondersi (o di risepararsi?) non sappiano più chi sono, da dove vengono e soprattutto cosa vogliono e dove vogliano andare. Nel dubbio che questo sia il nocciolo della questione, ho cominciato col prendere in mano i dizionari per controllare il senso vero di quella parola, “identità”, così spesso pronunciata e di quel concetto così tanto evocato. Il Devoto-Oli ricorda prima di tutto che in filosofia il principio di identità è il primo dei principi fondamentali della logica (seguito da quello di “contraddizione” e del “terzo escluso”) che può essere espresso nella formula “A è A”, la quale a sua volta è completata dall’altra formula “A non è non-A”. Un vecchio dizionario inglese che mi trovo per casa spiega che l’identità può essere assoluta (“A è A”) o relativa, e in questo caso il paragone è col verde di due foglie.
In sostanza l’identità di un partito, ciò che viene chiesto in coro, dovrebbe consistere in quell’insieme di dati caratteristici che permettono di individuare, di riconoscere e di esser riconosciuti subito in quanto tali.
“A è A”.
Ad esempio: il Pd è un partito laico, respinge dunque l’ingerenza dei vertici vaticani nella funzione legislativa.
Oppure. “A è A”, il Pd è un partito che pratica il rinnovamento della sua base e dei suoi vertici, è contrario al passaggio automatico da una carica all’altra…
Ancora: Il Pd è un partito che crede indispensabili regole ferree che distinguano politica e affari.
E poi: il Pd crede che i problemi della giustizia non si risolvono sottoponendo i pubblici ministeri al potere politico. Il Pd è un ferreo sostenitore della separazione dei poteri. Il Pd sostiene la necessità di riforme della Costituzione, ma è fermamente contrario a qualunque forma di presidenzialismo all’italiana. Il Pd si adopra affinché sia restituita dignità al Parlamento esautorato dal Governo.
Ancora: il Pd pensa che i politici indagati siano innocenti fino al terzo grado, ma che dopo la prima condanna debbano comunque fare un passo indietro. Idem per presidenti di banche e per chiunque abbia a che fare con il pubblico interesse.
Il Pd si batte da subito per la riforma della legge elettorale, perché l’appuntamento elettorale non è mai certo e dunque bisogna esser pronti da subito. Il Pd, in assenza di una nuova legge, spalancherebbe le porte a Primarie vere, e tutti sappiamo bene cosa vogliono dire.
Infine…(ma a quanti altri A potrei pensare…): il Pd è un partito che guarda al potere esclusivamente per la soddisfazione di fare qualcosa di utile per il proprio Paese, non per se stessi, per la corrente, per gli amici, per gli amici degli amici): Il Pd riconosce infatti che ogni interesse privato è l’anticamera della corruzione, dello svuotamento del concetto di equa competitività.
Il Pd fa del recupero di quella mezza Italia che vive e lavora sotto il ricatto della criminalità un impegno che non conosce cedimenti o debolezze.
Non so se si costruisca così l’identità, non ne ho mai costruita una e non credo che si riesca a farla da un giorno all’altro. Non credo che quelle “A” si trovino proprio nell’orto di casa. Ma sono sicura che sia giusto aggiungere che “A non è non-A”: insomma, che non si possano avere incertezze o tentennamenti su alcuni principi di fondo, che non sono mai negoziabili.
Per avere l’identità infatti bisogna saper dire dei “non possumus”, e ad essi restare assolutamente fedeli. Ed è ormai indispensabile cominciare a pronunciarli e soprattutto a praticarli nelle aule del Parlamento e nei corridoi dove si concludono gli accordi.
Il discorso sul perché agli italiani “di queste cose non importa nulla” lo sentiamo fare anche troppo spesso. La crisi economica devastante potrebbe giustificare il fatto che le preoccupazioni dei nostri concittadini siano assai più immediate e personali. Ma non giustifica affatto la classe dirigente che non informa, non dà l’esempio, traballa tra dialoghi impossibili e ignobili compromessi.
Mai eravamo giunti tanto in basso: con la forza politica che dovrebbe rappresentare l’opposizione che non sa chi sia, oppure forse pensa vantaggioso non dirlo. “Identità vo cercando…”. Oppure, no?
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