Parlerò di legalità.Legale vuol dire conforme a legge. Ma a quale legge? (sorge subito tale questione).I greci prima di ogni altri avevano esplorato gli abissi dell’animo umano: Sofocle, nella sempre attuale Antigone, magistralmente mette in luce lo scontro insolubile tra legge dello Stato (Creonte) e imperativo etico (Antigone). Attraverso Creonte, il quale impone che Polinice non sia seppellito all’interno delle mura di Tebe né di altre poleis, si distinguono due giustizie: una arcana (insita nell’animo umano), e una statuale (il bando di Creonte è positus dall’uomo sull’uomo). Antigone così afferma: «il bando non lo ha emanato Zeus, né Dike … né pensavo che tu, mortale, potessi sorvolare sulle leggi non scritte e stabili degli dei». Creonte più avanti risponde «temo che la cosa migliore sia vivere nel rispetto delle leggi vigenti». Il problema è che senza ius la lex diviene tirannia. E infatti, benché Hegel abbia visto in Creonte la metafora del sovrano ligio al potere statuale, altra parte della critica lo ha identificato con la figura del tiranno.Dopo un lungo percorso, in Occidente si è sostenuto che «Dio è morto» (a dire il vero non lo sappiamo di certo, ma sicuramente non fa le leggi), quindi le «leggi non scritte e stabili degli dei» nominate da Antigone non ci sono più. Dico in Occidente perché nell’Islam, ad esempio, vige la shari’a, che altro non è se non la legge coranica diffusa dagli imam. Dal concetto della morte di Dio discende che i valori non si possono desumere da una realtà ultramondana, e, arrestandosi a questo primo acchito, si rischia di cadere nella trappola del nichilismo, sia filosofico che giuridico: non si cerca più il giusto nel legale, e si scade nel formalismo (la loi de l’efficacité di cui parla Camus ne “L’homme revolté”).
Già Platone in alcuni brani mostra come si possa intendere la giustizia anche solo come modo di vivere funzionalmente pacifico in una banda di ladri. E in effetti il formalismo porta a considerare della norma solo l’aspetto tecnico, funzionale: i precetti normativi diventano solo contenitori indifferenti a qualsiasi contenuto, tanto che sembrerebbe potersi giustificare qualsiasi legge, anche le leggi razziali. Gustavo Zagrebelsky, in un articolo apparso su La Repubblica nel 2003, scrive: «la silenziosa sacralità del diritto è stata soppiantata dalla verbosa esteriorità della legge. Lo stato è solo una machina legislatoria».Ma la desacralizzazione del diritto non necessariamente porta al nichilismo e al formalismo: i valori precedenti sono caduti, certo, ma a un livello di analisi più profondo, ciò non vuol dire che non se ne possano trovare di nuovi. E questi nuovi valori devono desumersi dai principi etici incarnati dall’uomo nella sua dimensione storica, che si esplica nella società civile.E la società deve in primis educare i propri membri, i cittadini, alla cultura della legalità.Cultura della legalità è in primo luogo cultura del rispetto delle leggi: e a garantire la terzietà nell’applicazione della legge vi è il magistrato. Il cittadino, sapendo che c’è la figura del magistrato, che lo tutela anche contro l’autorità statuale, perché il principe non è mai legibus solutus, e lex facit regem (è la legge che fa il re, non viceversa), è sereno nel convivere civile.
Ma questa serenità scompare se non si è educati al rispetto di chi fa rispettare le leggi (Cicerone diceva «il magistrato è la legge parlante, la legge il magistrato muto»). E la magistratura deve essere indipendente dal potere governativo, perché lo può, e talvolta lo deve, mettere sotto accusa: quindi tutti gli attacchi che la XIV legislatura ha rivolto contro i magistrati minano alle basi la democraticità del nostro ordinamento (, si ricordi che Berlusconi, tanto per non fare nomi, nel 2003 disse «fare i giudici è da disturbati mentali»).Si è detto che la società deve educare alla legalità: ma chi nel concreto ha questa responsabilità? Le scuole (ribadendo la centralità del sistema educativo), i magistrati (che sono la figura di riferimento), e anche (e forse soprattutto) la stessa politica, i partiti. Quest’educazione deve condurre ad una maggior conoscenza dei propri diritti e doveri e ad una maggior cultura del funzionamento dello Stato; troppo spesso quest’ultimo aspetto è visto dagli studenti (e non solo) in cattiva luce, perché sembra qualcosa di estraneo, di avulso dalla propria realtà: la politica appare uno sporco gioco di partiti e di palazzi (anche solo di corridoi), lontana dalle effettive istanze della realtà. Occorre dunque, con urgenza, una svolta che accorci la distanza tra politica e società civile, giovani soprattutto.Abbiamo visto che educare alla legalità è educare al rispetto della legge; ma a quale legge? (torna, scottante, la domanda iniziale).
Non quella del più forte, ma quella che è stabilita come ius (e quindi “giusta”) da una dialettica istituzionale completa, realmente democratica: quindi educare alla legalità significa educare alla partecipazione alla vita politica, e poiché, come diceva Giorgio Gaber, «libertà è partecipazione», cultura della legalità è cultura della libertà. Ed è proprio in ossequio a questa cultura della legalità=partecipazione=libertà che la società di cui siamo parte è una società aperta, che percepisce il bisogno che la Repubblica sia davvero res publica, con la partecipazione di tutti al dibattito democratico. E questa percezione, oggi, è incanalata in un progetto, che si chiama Partito Democratico, e io chiudo comunicandovi una mia speranza, che cioè questo Partito Democratico sia sul serio una formazione altra, non un’altra formazione, non un nuovo partito (ce ne sono tanti), ma un partito veramente “nuovo”. Grazie.
* L’autore è uno studente ventenne nipote del magistrato ucciso dai terroristi di destra nel ’76. Il testo è stato letto alla presenza del presidente Scalfaro nel luglio scorso, nel corso di un incontro sulla legalità.
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