Piero Calamandrei e la Costituzione dell’Italia Repubblicana *

22 Luglio 2007

Io parlerò di questo complesso tema in una prospettiva un po’ diversa da quella del collega Cheli e, credo, anche da quella del collega Ruffilli, perché non sono un costituzionalista, non sono uno studioso né di teoria né di storia di questi problemi. Quel poco che so mi deriva dalla necessità culturale di impadronirmi di certe nozioni, allo scopo di esaminare, di studiare, i processi politici che avvengono in Italia e di pensare anche a ciò che devo fare nella mia modesta qualità di politico. La mia mentalità è semmai quella dello storico, e per di più, di uno storico dell’antichità quale io sono. M’interessa quindi in particolare un dato essenziale, quello del tempo.A volte non riesco facilmente a sentire con immediatezza l’attualità di un pensiero, seppur altissimo, se non, come si suol dire, storicizzandolo.Devo confessare francamente che non ho molta fiducia, non ho più molta fiducia, in quella tendenza italiana, forte e autodistruttiva, a iperregolamentare e mettere tutto per iscritto. Ho avuto sotto gli occhi, come tutti naturalmente, i risultati della commissione Bozzi sulle riforme istituzionali. Un lavoro estremamente meritorio che se non altro ha il grande pregio di darci la fotografia di che cosa il Parlamento è oggi in grado di esprimere. Se non altro è una testimonianza di enorme valore che ci permette di non ragionare in astratto, cosa che noi spesso rischiamo di fare.Una cosa che si nota immediatamente è che nelle proposte di nuovi articoli, o nelle proposte di modificazione agli articoli della Costituzione, c’è un appesantimento del particolare, un ulteriore irrigidimento delle norme rispetto alla natura, di per sé già rigida, della nostra Costituzione.

Basta prendere l’articolo che riguarda la presidenza del Consiglio, il governo, il presidente del Consiglio e il Consiglio dei ministri. Vediamo che nella nuova formulazione è descritto ancora più dettagliatamente il carattere dei poteri del presidente del Consiglio e dei rapporti coi poteri del Consiglio dei ministri. Mettiamo da parte momentaneamente il fatto che, nel frattempo, si è preparata una legge in proposito. In generale, secondo me, questo non è un processo sano. È un processo nel quale si rispecchiano, mettendole sulla carta, le preoccupazioni che ci sono oggi per il futuro e si articola ulteriormente il già troppo articolato dettato costituzionale.Noi dobbiamo stare molto attenti, ricordarci dell’insegnamento di Calamandrei (che in questo senso è veramente eccezionale nella sua portata di intelligenza) che la Costituzione deve essere presbite; la Costituzione del ’47/’48 ha resistito e resiste nella sua struttura fondamentale perché, appunto, era una Costituzione anticipatrice più che accoglitrice della realtà. Noi oggi, non dobbiamo commettere l’errore di trascrivere nelle modifiche costituzionali quelle che sono le nostre contingenti angosce di non funzionamento o di disfunzione. Non dobbiamo correre il rischio di fare una costituzione miope.Riflettere sugli scritti e sui discorsi di Calamandrei, e qui vorrei venire al tema più generale delle riforme istituzionali e costituzionali, serve anche a capire quanto la stagione costituente sia stata, in un certo senso, una stagione miracolosa e come sia impossibile il nascere di una nuova costituzione se non in una contingenza storica unica ed eccezionale.È stato così per lo Statuto albertino come per la Costituzione americana; e per la società italiana ci sono stati i grandi traumi, la guerra, la fine del fascismo, la liberazione, un nuovo Stato, una nuova società politica, un nuovo linguaggio.Fu un miracolo, non solo un momento storico irripetibile, e fu un miracolo anche il fatto che si riuscì a fare nonostante ciò, anzi probabilmente per questo, una Costituzione che ha resistito al tempo nella sua sostanza, nonostante le critiche che sollevò allora.

Calamandrei ne fece alcune che restano eterne, probabilmente perché ci consigliano di correggere sempre nella prassi lo scritto della Costituzione.Ecco, potè avvenire questo miracolo perché appunto esisteva una congiuntura politica particolare e perché, consentitemi di dirlo, probabilmente c’era alla Costituente il precipitato di una lunga, tesa e maturata esperienza. L’esperienza degli uomini che avevano vissuto, in un modo o nell’altro, il trauma, la storia del fascismo. Avevano vissuto sulla loro pelle, sulla pelle del loro paese, i problemi dell’unità, dell’autonomia, della libertà, della democrazia. Li avevano maturati culturalmente e li avevano sperimentati; era quindi una generazione di padri della patria.Siccome questa particolarità di condizioni si presenta di rado, io sono convinto che non è possibile crearle artificialmente. Si può invece, intorno alla fattura delle leggi, riflettere e raggiungere possibili correzioni, ma dopo tanti anni (anch’io quando ero giovane ritenevo che questa Costituzione fosse piena di lacune, di debolezze, di errori dovuti a compromessi contingenti) io mi sono convinto che un popolo come il nostro, difficile e frazionato, debba tenersi la costituzione legislativa e le costituzioni politiche e sociali che ha, lavorando semmai per vedere ciò che è ancora possibile cavarne.Secondo me questa Costituzione è ancora, per usare una espressione di Calamandrei, incompiuta. Dopo la stagione della V legislatura, in cui furono realizzate le regioni, lo statuto dei lavoratori, l’area del Consiglio Superiore della Magistratura, non è più incompiuta come istituto, ma certamente è ancora incompiuta per quanto riguarda la sua capacità di rappresentare un punto di riferimento reale per una gestione democratica seria, moderna, del potere politico e amministrativo.

Perché nelle costituzioni alcune cose non si possono scrivere, ma sono presupposte nel loro intimo, e se alcune espressioni della Costituzione apparivano a Calamandrei retorica fumosa, dieci anni dopo ricominciavano a far trasparire una carica indicativa.E così ancora oggi ci sono, nella nostra Costituzione, molte norme che possono essere interpretate da una classe politica più attenta ai suoi compiti. Vorrei essere breve, ma devo sottolineare proprio questo fatto: secondo me oggi noi abbiamo molto più a che fare col concreto dei doveri e del lavoro di una classe politica, dei partiti, del Parlamento. Molte cose che non soddisfano, che frustrano il mondo politico e creano difficoltà, sono in realtà conseguenze di prassi politica, di un modo di far valere gli interessi di parte.Per esempio, proprio per venire a quello che è il punto nodale oggi, il problema dell’efficienza dell’esecutivo, la capacità del governo di dirigere realmente il paese, di dirigere l’amministrazione e il Parlamento.Non dobbiamo dimenticare che quella breve espressione dell’articolo 95 della Costituzione (il presidente del Consiglio dirige e coordina l’attività del Consiglio dei ministri e del governo) può essere interpretata, ed è assolutamente sufficiente a mettere in condizioni il presidente del Consiglio di esercitare effettivamente il potere di guida e di coordinamento. Ma noi abbiamo avuto per oltre trenta anni, quasi quaranta — in questo sono sommario anche se si tratta di una constatazione storica – la direzione democristiana sul governo.

La direzione di un partito nella cui mentalità, nelle cui stesse origini direi, basta dare un’occhiata all’intervista di Levi a De Mita pubblicata in questi giorni da Laterza, è radicata la convinzione che anche se la presidenza del Consiglio è una istituzione fondamentale, resta ai partiti il compito vero di dirigere il paese. Ciò si sintetizza nella espressione “il paese si dirige da Piazza del Gesù, non da Palazzo Chigi”.Si può notare quindi che la povertà del ruolo della presidenza è dovuta non tanto al dettato della Costituzione, quanto alla realtà politica. Non voglio qui criticare questa concezione che, tutto sommato, può avere anche il significato di una sorta di protezione delle istituzioni dalla eccessiva invadenza dei partiti.Poi sono venuti i governi laici; prima il governo Spadolini, poi il governo Craxi, che hanno evidenziato una certa debolezza della capacità operativa della figura del presidente del Consiglio.Forse il problema fondamentale oggi è quello di introdurre alcune correzioni alla Costituzione, ma, a mio avviso, nella Costituzione italiana c’è una sola, grande incongruenza, sulla quale, tra l’altro, Calamandrei fece un discorso straordinario non solo dal punto di vista ideale e culturale, ma anche da quello giuridico-costituzionale. Si tratta dell’articolo 7.La nostra Costituzione è la sola al mondo nella quale, come Calamandrei notava, lo Stato e la Chiesa si riconoscono l’un l’altro l’indipendenza e la sovranità. Non è solo lo Stato soggetto del riconoscimento, è anche la Chiesa che nella Costituzione italiana riconosce la sovranità dello Stato italiano.Questo è un mostrum che, peraltro, trova la sua giustificazione nella nostra storia.

Ma è anche un punto che non si può correggere, sul quale non possiamo intervenire. Di fatto abbiamo visto che non solo non si è corretto, ma, emendandolo, lo si è confermato. Di grandi modifiche quindi, non credo se ne possano fare.Per concludere, tornando alla mia diagnosi di carattere, voglio dire che di fronte a certi progetti manca del tutto l’unità d’intenti. Il discorso sul nuovo cameralismo, per esempio, si scontra con una forte tendenza contraria. Il partito comunista, che per prestigio e potenza non è certo l’ultimo partito italiano, propugna questa tesi. Ma io mi chiedo: “Dove sono oggi in Italia le condizioni politiche e morali per sottoporre il paese a un tipo di trasformazione del genere, con l’abolizione di una camera, la ristrutturazione dell’altra e il cambiamento totale del sistema elettorale?” Non so se tutto questo si debba fare. Sono convinto però che non si può fare. Che in un paese complesso con i problemi insieme del futuro e del passato, con i pericoli sempre immanenti nella vita del nostro paese, gravi una tematica che, in questo momento non gli è assimilabile, rischia di essere gravemente fuorviante.Oserei dire che forse la parola d’ordine dovrebbe essere quella, accanto alle modifiche da fare, di far bene ciò che si può fare nell’ambito dell’esistente, senza sottoporre il paese a stress o a traumi che in gran parte non comprende.Quando dal paese si solleva l’esigenza di un Parlamento diverso, più veloce, non si indicano soluzioni costituzionali diverse, si denuncia solo una situazione di carenza.

La risposta deve essere adeguata all’esigenza. Dobbiamo fare un Parlamento più rapido, che funzioni meglio e faccia leggi migliori, ma non è detto che per fare questo sia necessario cambiare la Costituzione. Ci sono infinite cose, credo che il collega Ruffilli sia d’accordo con me in ciò, che potremmo far meglio con la Carta così com’è. Per esempio fare leggi migliori.E concluderei con una piccola cattiveria. La legge sulla riforma della presidenza del Consiglio è, a mio avviso, una cattiva legge. È una legge omnibus in cui, volendo mettere in pratica dopo quaranta anni il dettato costituzionale che prevede il regolamento dell’ordinamento della presidenza del Consiglio e del Consiglio dei ministri, si parla di tutto, compresi i rapporti tra Stato e Regioni. E viene ristrutturato tutto in modo diverso, compresa una visione interna del meccanismo di funzionamento dei poteri reali del Consiglio dei ministri e della presidenza del Consiglio che introduce, secondo me, novità costituzionalmente discutibili. È una legge costituzionale, lo dico per sensazione politica e non da giurista, non una legge ordinaria. È una di quelle leggi, ce ne sono ormai di tutti i tipi, verso la quale ci si trova nella dolorosa necessità che, per accettarne una parte che va bene, dobbiamo accettare anche ciò che non ci convince. Questa è una delle tare della vita del nostro Parlamento.Noi dobbiamo spesso avallare, ciascuno di noi parlamentari vota alla fine, leggi che condividiamo solo a metà.


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