Speciale Partito democratico // L’11 giugno scorso in una sala del Campidoglio nella quale tanti vecchi amici romani si erano riuniti a discutere del libro di Giovanni Ferrara“ Il fratello comunista”, Alfredo Reichlin ha per primo investito Walter Veltroni di quel compito che oggi molti sono pronti ad affidargli e lui stesso si prepara ad accogliere: guidare il futuro Partito democratico nella impresa di colmare il grande vuoto della politica italiana. Mentre il sindaco di Roma abbassava lo sguardo appena imbarazzato, Reichlin ha spiegato che si tratta sostanzialmente di riempire lo spazio lasciato non solo dal crollo del comunismo e dei partiti ad esso legati, ma anche dalla evidente crisi del pensiero laico e liberale. Dal venir meno “dei presupposti della democrazia”. Veltroni, che il libro se lo era letto attentamente e lo aveva riempito di foglietti di appunti, ha colto il senso di quel momento simbolico e ha risposto che a suo avviso non può esistere “una democrazia fatta di niente” ma che mai come oggi, secondo lui, sia possibile “trovare ragioni grandi e valori fondanti”.Sono partita dalle cose dette in quella serata al calar del sole su una Roma rossa di luce e di malinconia oltre che di splendore perché mi è parso davvero che essa segnasse l’inizio di una svolta nelle scelte di vita del sindaco, la consapevolezza del piombare su di lui di una responsabilità che a molti può apparire “storica”.
Per cui comincio così qualche riflessione su un politico-giornalista che conosco da tanti anni, dal tempo in cui raccontavo la cronaca politica degli anni Ottanta e Novanta e Veltroni militava in un partito duramente all’attacco del Psi di Craxi ed era ancora in cerca di una sponda sua, di un “luogo” sul quale fermarsi a pensare di governo della democrazia. Ricordo come fosse oggi il giorno in cui lui e Massimo D’Alema a Rimini dovettero salire sul camper di Craxi a discutere credo di internazionale e altro e quando ne scesero i due giovani leader dicevano di avere entrambi un unico problema: come dire alle loro mogli che avevano accettato l’invito di Bettino.Il Veltroni che conosco è a mio avviso prima di tutto un grande giornalista e aveva fatto dell’Unità un giornale importante: scrivere gli viene naturale quasi quanto parlare, può scrivere ovunque, nella confusione di un dibattito in Parlamento o in quella di una discussione di partito. Ha la capacità che Arrigo Benedetti, uno dei più grandi maestri di giornalismo, indicava come fondamentale per questa professione: e cioè quella di “fare come una spugna: assorbire tutto ciò che si vede e si sente e poi raccontarlo”. E’ difficile che una situazione bella e interessante, un personaggio che ha qualcosa da dire, una storia, un luogo non banale gli sfuggano. Veltroni è un “cultore” (un collezionista all’antica) dei luoghi e delle persone simbolo della nostra storia recente e lontana. Vorrebbe salvarli tutti, tenerli tutti in un suo luogo personale ma anche pubblico.
In questo è davvero diverso da altri politici italiani. Perché come tutti sanno il sindaco raccoglie anche trofei stranieri, li elabora, li fa suoi, ci aggiunge qualcosa di suo e diventano in un certo senso “suoi” eroi. Vedi i Kennedy o don Milani o Bobbio e Galante Garrone che gli parleranno mercoledì a Torino.“Il comunismo è stato sconfitto, ma anche Bobbio e i suoi discepoli devono fare i conti con la realtà” gli diceva l’altra sera Alfredo Reichlin, interpretando fino in fondo il senso drammatico del libro che presentavano. Veltroni lo sa, e insisteva a sua volta sul fatto che tutti questi “ismi” (comunismo, fascismo, liberalismo…) non esistono più per risolvere “le contraddizioni di questo tempo”. E fra le caratteristiche del futuro supersegretario del Pd ce ne sono alcune degne di esser ricordate. Egli, ad esempio, conosce fino in fondo la spietatezza dei partiti della prima repubblica, avendola anche sperimentata sulla propria pelle e certamente farà di tutto per evitare di restare prigioniero di vecchie logiche. Inoltre, sa di apparire ai cittadini nella veste di un politico certo non nuovo ma meno logorato di altri. Veltroni conosce bene infatti i meccanismi della comunicazione e anche per questo ha evitato di partecipare a quella passerella mediatica ossessiva che in nome della “visibilità” ha mietuto tante vittime. E qui veniamo al compito immane che il politico-giornalista-sindaco è disposto ad affrontare: quello appunto di riempire di contenuti la grande passione che lo anima.
Pochi e incerti sono oggi i punti di riferimento, molti i suggeritori interessati. Attenta è quella società che Ilvo Diamanti descrive come poco incline, oggi, ad esser convinta. Essa desidera un grande passo verso l’innovazione, anche del sistema istituzionale, che non contenga in sé i germi dell’avventura. Veltroni dovrà dunque trovare nella sua esperienza e nel suo mondo interiore i contenuti di pensiero e di operatività fondamentali a riempire il vuoto di cui si parla. Sapendo che non è di avventure che il Paese e la democrazia italiana hanno bisogno, e credo di dire una cosa che Veltroni condivide. Di avventure ne abbiamo già corse abbastanza, qualunque sia il nome che ad esse si voglia dare. Io penso che non sia impossibile trovare soluzioni che altri Paesi sperimentano normalmente da tempo. Bisogna volerlo con la forza della volontà e la certezza che non si può fallire. Quel tempo è davvero finito per tutti.
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