Laicismo in terra martyrum* 1

12 Marzo 2007

Tra i tanti e tanto gravi problemi interni e internazionali che impegnano e preoccupano, non si dovrà però trascurare un attento e sereno esame dell’ «Accordo tra la Santa Sede e la Repubblica Italiana» stipulato in Villa Madama il 18.2.1984. Quando il governo lo sottoporrà alla ratifica delle Camere a norma dell’art. 80 della Costituzione, sarà bene infatti avere le idee chiare. Perplessità non mancano, e non possono mancare, data la difficoltà e la delicatezza del-la materia.Espongo qui, intanto, tre punti generali di non lieve dubbio.1) L’articolo 1 del Protocollo Addizionale dichiara abrogato l’articolo 1 del Trattato Lateranense, che definiva la religione cattolica come la «sola religione» dello Stato italiano. Ottima cosa, ovviamente. Ma l’articolo 1 dell’Accordo introduce un concetto del tutto nuovo rispetto al Concordato del ’29, assai preoccupante e già fonte di discussione. Esso comincia (richiamando il 1° comma dell’articolo 7 della Costituzione [Lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani]): «La Repubblica Italiana e la Santa Sede riaffermano che lo Stato e la Chiesa Cattolica sono ciascuno nel proprio ordine indipendenti e sovrani», e prosegue: «impegnandosi al pieno rispetto di tale principio nei loro rapporti e alla reciproca collaborazione per la promozione dell’uomo e per il bene del paese». Il dubbio è questo: ciò significa che lo Stato italiano riconosce (e si impegna ad operare in conformità) d’avere in comune con la Santa Sede i valori fondamentali cui s’ispirano la «promozione dell’uomo» (valori etico-filosofici) e il «bene del paese» (valori etico-politico-sociali)?Che, cioè, la promozione dell’uomo (checché ciò significhi) e il bene del Paese debbono, in Italia, essere garantiti e alimentati dal concorde concorso delle volontà sia dello Stato che della Santa Sede?C’è da chiedersi se in futuro, ove i governi o le amministrazioni pubbliche italiane non collaborino, con comuni intenti e convergenti ispirazioni, con la Santa Sede, la CEI e i VESCOVI nelle opere di promozione umana e di pubblico bene, potranno essere accusati di violazione o scarsa cura del Concordato.

Che pensarne? È possibile che nonostante l’abolizione dell’articolo 1 del Trattato, l’accordo del 18 febbraio riconosca alla Chiesa uno spazio maggiore e una «parità» più significativa di quella riconosciuta nel ’29? Forse sì.2) Perché mai non si è attesa la conclusione dei lavori della commissione che (articolo 7 dell’Accordo) deve regolare la materia dei Beni ed enti ecclesiastici, ma si è voluto affrettare la firma di un accordo il cui contenuto è, per questa importantissima parte, incompleto e provvisorio?È ben noto che quella commissione dovrà risolvere tra l’altro questioni gravi, come quella del controllo, da parte dello Stato, delle attività finanziarie del Vaticano in Italia: il caso IOR-Ambrosiano ha reso il problema attualissimo, ma il quadro giuridico in cui esso si colloca è assai vasto. Ebbene l’Accordo è ormai firmato, così lo Stato si è legato le mani, giacché dovrà accettare comunque i risultati del lavoro della commissione. Quanto al Parlamento, la procedura di ratifica (che è quella contemplata per i trattati internazionali) prevede solo il voto favorevole o contrario alla legge di ratifica e il testo dell’Accordo non può pertanto essere toc-cato. Ebbene, chi approvasse l’Accordo firmato il 18 febbraio ma fosse scontento dei risultati della commissione si troverà in gravissimo imbarazzo.3) Secondo le espresse intenzioni, l’Accordo del 18 febbraio non è un «nuovo Concordato», bensì un testo che «apporta modifiche» a quello del ’29.

La distinzione è importantissima, e non per nulla è esplicita nell’Accordo stesso, che all’articolo 13 suona: «Le disposizioni precedenti costituiscono modificazioni del Concordato Lateranense accettate dalle due parti». Perché è importante e si è avuta tanta cura di sottolinearla fin dal lontano inizio delle trattative? Perché c’è un problema: il testo dell’articolo 7 della Costituzione, 2° comma, recita: «I loro (dello Stato e della Chiesa) rapporti sono regolati dai Patti Lateranensi. Le modifiche dei Patti, accettate dalle due parti, non richiedono procedimento di revisione costituzionale». Ciò significa tra l’altro — e questo è il punto qui da notare — che se questo testo dovesse essere considerato in realtà un vero e proprio «nuovo Concordato» e non un semplice insieme di parziali modifiche, a parere di illustri esperti (non però condiviso da tutti) esso potrebbe non essere più «coperto» dal testo dell’articolo 7 della Costituzione, il quale dà garanzia costi-tuzionale proprio e soltanto ai Patti Lateranensi. Pertanto, se si volesse riconfermare la volontà dei Costituenti del ’48 di garantire costituzionalmente il Concordato, si dovrebbe modificare l’articolo 7 della Costituzione sostituendo la dizione «Patti Lateranensi» con un’altra, che in qualche modo menzioni specificamente il «Concordato di Villa Madama». Ove ciò non si facesse, sarebbe possibile considerare l’ipotesi che questo «nuovo» Concordato (non il Trattato, che a parte l’articolo 1 è intatto) potrebbe venire in seguito modificato dal Parlamento con procedura legislativa ordinaria, anche senza consenso della Santa Sede.

Ciò sconvolgerebbe il sistema pattizio, vigente dal ’29.Ebbene l’Accordo del 18 febbraio deve veramente essere considerato, quanto alla sostanza, un semplice insieme di modifiche ai Patti Lateranensi?C’è quantomeno da dubitarne e discuterne. Certo, singoli punti sono solo modifiche: quello sul matrimonio, quello sull’insegnamento religioso nelle scuole e altri. Ma alcuni elementi sono essenzialmente nuovi: l’articolo 1 ad esempio (con la connessa abolizione dell’articolo 1 del Trattato); la presa in considerazione, nuovissima, della CEI come possibile interlocutore di successive «intese» (articolo 13), dove si prospetta la realtà di una Chiesa nazionale italiana, del tutto nuova rispetto ai Patti Lateranensi del ’29. D’altronde, l’insieme delle modifiche parziali sembra figurare un quadro di rapporti sostanzialmente diverso, nello spirito, da quello figurato nel ’29; e nello stesso senso sembra andare la prescrizione secondo cui «le disposizioni del Concordato (Lateranense) non riprodotte nel presente testo sono abrogate» (articolo 13). Né mi sembra irrilevante la grande solennità data alla cerimonia della firma identica a quella della firma di un vero e proprio Concordato.Non è dunque irragionevole l’ipotesi che questo Accordo, in realtà, sia soltanto di nome «una modifica del Concordato Lateranense», bensì di fatto un «Nuovo Concordato».L’interpretazione largamente dominante degli Accordi di Villa Madama è che essi traggono la loro originalità e fecondità soprattutto dalla rispondenza col nuovo clima creatosi col cambia-mento della Chiesa in seguito al Concilio Vaticano II.

Il trionfale affermarsi — anche presso molti laici — di questa interpretazione lì per lì sorprendente, non è casuale. Difatti, è vero che il risultato degli Accordi si esaurisce per lo Stato nel riconoscimento di elementi di sovranità già acquisiti e comunque impliciti nella Costituzione, mentre per la Chiesa consiste nell’acquisto di nuove, più ampie e moderne premesse di vita e di presenza attiva nella società italiana. Da un parte si cancella o attenua ciò che per la nostra Costituzione è inaccettabile, dall’altra si definisce e progetta un’autonomia della Chiesa carica di dinamismo e autorevolezza — sia della Chiesa come istituzione, sia della Cattolicità come punto di riferimento ideale, sociale, cultura-le, anche del mondo non cattolico.Formuliamo dunque la semplice domanda: dopo gli Accordi di Villa Madama, la Chiesa, come centro di iniziativa e di influenza, è più o meno forte in Italia? Domanda che si impone, nono-stante il divieto di quanti vorrebbero considerarla vana e superata. Giacché, seppure si ricono-sca che dai duraturi intenti della Chiesa è svanita ogni odiosità di arcaiche e autoritarie pretese, una forza attiva è pur sempre nella vita stessa della Chiesa, e le nuove forme e spiriti post-conciliari sono pur sempre forme e spiriti di potenza, influenza, penetrazione. Non c’è da scandalizzarsene, ma neppure si può ignorarlo. Le vie, la presenza, il linguaggio della Chiesa sono in buona parte nuovi e diversi, assai più aperti al mondo, comprensivi della sua ricca e drammatica libertà; ma si tratta pur sempre di vie, di presenze, di linguaggi vòlti alla per-suasione e alla guida.

D’altronde, qualsiasi struttura organizzata, quali che siano gli intenti costitutivi della sua attività, per ciò stesso che è organizzata vive attuando i propri disegni e interessi e perciò contiene in sé — per naturale logica umana — un potenziale di egemonia.Sicché, la risposta più realistica alla domanda posta sopra, è che la Chiesa d’ora in poi in I-talia, grazie agli Accordi, è più forte di quel che prima fosse.Peraltro, se un Concordato c’è — e per comune consenso si è ribadito che in Italia non se ne può fare a meno —, come ogni accordo fra sovranità diverse esso c’è per contenere tensioni, placare diffidenze e distribuire vantaggi. Ma lo Stato ha mille volte dichiarato di non avere più alcuna diffidenza verso la Chiesa e di non aver nulla da avvantaggiarsi su di essa; bisogna dunque pensare che sia la Chiesa a diffidare ancora, sia pur celatamente e con riserva, dello Stato e a ricercare vantaggi su di esso. Diffidenze e vantaggi che non sono quelli nutriti e ri-cercati nel 1929, naturalmente, ma pure ci sono e operano, tanto più quando di fronte a una Chiesa intrinsecamente missionaria si pone uno Stato come il nostro, missionario ormai solo della propria incertezza di valori politici e della propria crisi di ruolo istituzionale.Non è dunque casuale che molti eminenti rappresentanti dello Stato italiano abbiano esaltato in questa occasione lo spirito del Concilio come quello che impronta di sé il nuovo Concordato, riconoscendo così il primato ideale della Chiesa nel nuovo corso concordatario.

Un primato di cui peraltro il testo degli Accordi di Villa Madama porta tracce assai evidenti, seppur com’è naturale discrete.Così l’articolo 1 : dove Repubblica Italiana e Chiesa Cattolica si impegnano a collaborare per il bene dell’uomo. Proprio qui si avverte lo squilibrio inevitabile tra i due contraenti: limiti alla propria iniziativa di collaborazione la Chiesa non può incontrarne altro che in se stessa e nella propria discrezione, laddove lo Stato s’impegna di fatto a non porne (se non quelli particolari di legge) all’iniziativa collaboratrice della Chiesa. Ed uno Stato che non sia (e il nostro davvero non lo è) «costantiniano», non cercherà mai di collaborare con la Chiesa nel campo delle inter-ne faccende spirituali e istituzionali-spirituali di questa; mentre la Chiesa potrà a buon diritto collaborare nelle faccende spirituali e materiali della comunità statale italiana, qualsiasi cosa ciò significhi.Il punto è che lo Stato nostro non è costantiniano, o giuseppino, o giurisdizionalista, in alcun senso, né vecchio né nuovo, mentre la Chiesa resta di per sé «confessionale» – in modo nuovo, sì, ma pur sempre confessionale, poiché al fondamento della Chiesa, universale o nazionale che sia, sta e non può non stare la «confessione» della Fede in cui Essa riconosce il divino fondamento della sua terrena missione.C’è poi almeno un articolo degli Accordi in cui lo Stato compie una rinuncia, implicita ma reale, alla propria laicità: ed è quello sull’insegnamento religioso nelle scuole.

Ma si badi, tale rinuncia non si esprime tanto, come i più dicono, nella garanzia di assicurare l’insegnamento religioso nelle scuole, quando nella motivazione posta ufficialmente alla base di quella garanzia, cioè il riconoscimento da parte della Repubblica Italiana dell’importanza storica della tradizione cattolica in Italia. In sé, tale riconoscimento è superfluo e culturalmente ovvio; ma espresso solennemente dallo Stato, assume il valore e la responsabilità di un giudizio storico in cui il momento culturale assurge a principio ufficiale, a dottrina dello Stato. La Repubblica Italiana si fa così, non laicamente, filosofo della storia italiana !C’è parecchio altro da dire, sul testo degli Accordi e sulle ambiguità che a un occhio attento si rivelano portatrici di un’impronta assai più chiesastica che statale. E potrà darsi che, nel formulare lo scritto, questo nostro Stato sia caduto in qualche distrazione — solita com’è la gran parte della nostra classe dirigente a lasciarsi sfuggire per incompetenza, lassismo e opportunismo l’essenza dei problemi che affronta. Ma che sia stata, nello scrivere, distratta la Chiesa, chi oserebbe crederlo?
Il progetto di legge, n. 1839 del 27 giugno ’84 a firma Casati e altri (praticamente l’intero gruppo parlamentare democristiano della Camera), intitolato «Ordinamento della scuola non statale» è all’ordine del giorno della Commissione P.I. e la discussione (sembra) comincerà in ottobre.Si tratta, a mio avviso, d’un formidabile attacco alla scuola di Stato, in linea di principio e anche, non secondariamente, di fatto.Anzi, è ben di più.

È il primo aperto tentativo, esperito attraverso la legislazione scolastica, di proporre in concreto la concezione dello Stato fatta ormai propria in Italia dalla Chiesa italia-na e dall’intero mondo cattolico, secondo la quale (per dirla in sintesi), per «Stato italiano» si dovrebbe intendere, ormai, una sorta di complesso integrato, costituito da due elementi, lo Stato in senso stretto e la Chiesa italiana. Lo Stato e la Chiesa italiana convergerebbero in una sola, articolata,struttura istituzionale, quasi una sorta di Super-Stato, nel quale per molteplici aspetti lo Stato (quello della Costituzione, dei codici, della pubblica Amministrazione) e la Chie-sa italiana (quella della CEI, delle diocesi, dei vari organismi da quella e da queste diretti o controllati) collaborano alla concreta vita del Paese, su un piede di sostanziale parità.Ben è vero, nel nuovo Concordato firmato in febbraio e ratificato in agosto, la religione cattolica non risulta più, com’era nel Concordato del ’29, «la sola religione dello Stato»; ma presente resta la concezione cattolica (che com’è ovvio influenza irresistibilmente l’Italia intera) per la quale la Chiesa dev’essere ritenuta quasi un pilastro fondamentale dello Stato.È un’interpretazione inaccettabile, e tuttavia lucida e possente, dell’ambigua teoria dello «Stato democratico pluralista»: la sovranità dello Stato rinuncia a condizionare in alcun modo quella della Chiesa, mentre la Chiesa assume su di sé il compito di influenzare «collaborando» lo Stato.

Si profila così una grandiosa vittoria della Chiesa post-conciliare sulla Repubblica Ita-liana. Non è chiaro se la DC, partito storicamente laico della Repubblica, si renda ben conto della portata di tale processo, concluso in una situazione politico-parlamentare nella quale il fatto compiuto costringeva, pena una gravissima crisi politica, ad approvare o al massimo ad astenersi. Ci fu da parte laica chi sottolineò energicamente che il vero, grande problema non era ormai più quello del testo del Concordato, bensì quello dell’interpretazione generale e particolare che ne sarà data e che prevarrà. Chi esprimeva questa preoccupazione aveva, tra l’altro, in mente proprio la relazione che precede il progetto di legge sulla scuola non statale, ispirata a una interpretazione del Concordato nel senso — in linea di principio e di fatto — più favorevole, anzi esclusivamente favorevole alla Chiesa.Torniamo perciò alla scuola non statale, cioè alla scuola cattolica. Un’analisi del progetto Ca-sati non è qui possibile: mi soffermo perciò soltanto su quell’aspetto che sùbito lo caratterizza come un massiccio attacco alla concezione costituzionale e laica della nostra Repubblica.Il progetto democristiano prevede che lo Stato debba pagare praticamente tutte quelle spe-se delle scuole non statali da cui dipende il loro normale funzionamento: vale a dire, le spese per il personale docente (compresi gli oneri assistenziali), e per la scuola dell’obbligo anche quelle per il personale non docente, con un rimborso-spese per la normale gestione (inoltre, lo Stato dedurrà dall’imponibile fiscale i contributi, donazioni e lasciti a favore delle scuole non statali).

In pratica a queste non resterà che pagarsi quegli «extra» in fatto di attrezzature, servizi e attività che le faranno scuole privilegiate nei confronti delle statali. C’è chi ha previsto, approssimativamente (ma si è mai visto che una spesa reale sia minore di quella prevista?) un onere annuale di 1500 miliardi per lo Stato: qualcuno pensa che sia poco — ma è, per esem-pio, il doppio del bilancio annuale dei Beni Culturali.Quest’obbligo legalizzato del gravame per lo Stato vien fatto derivare da una teoria della scuola non statale come «scuola pubblica», teoria ingegnosa ma insostenibile. Osservo solo due cose.La prima è che il nostro Stato, indebitato fino ai capelli ed oltre, non in grado di far fronte ai drammatici problemi di ricostruzione e modernizzazione della scuola statale, che è servizio pubblico fondamentale – «La scuola», disse Concetto Marchesi alla Costituente «è il massimo, dirò l’unico organismo che garantisca l’unità nazionale…» -, deve prima assolvere a questi suoi primari e indelegabili compiti; poi potrà, se lo dovrà, pensare a aiutare finanziariamente la scuola non statale (mai però per legge; d’altronde per la scuola non statale soldi se ne spendono già parecchi, da sempre). Se si vuol mettere in bilancio un paio di migliaia di miliardi all’anno per la scuola, perché i democristiani non li esigono per quella scuola statale che essi stessi governano da sempre? La quale sarà pure un «disastro» – come si dice, peraltro alquan-to leggermente e non sempre disinteressatamente -, ma intanto è la scuola di tutti e per tutti.La seconda cosa da dire è che il progetto Casati propone questo finanziamento statale massiccio e legalizzato quasi fosse una conquista costituzionale e democratica, laddove è una patente violazione della Costituzione repubblicana.

In questa, come è noto, all’art. 33 è scritto: «Enti e privati hanno il diritto di istituire scuole e istituti di educazione, senza oneri per lo Stato», il che significa, a onta delle migliaia di cavilli escogitati fin dall’inizio, che in Italia la scuola privata è tutelata e costituzionalizzata, ma anche che lo Stato «deve» spendere solo per le scuole proprie, non per le private. Sicché lo Stato non può obbligarsi formalmente a fi-nanziare la scuola privata, e questa non ha diritto d’essere finanziata dallo Stato – in altre parole, lo Stato non può essere vincolato per legge a un finanziamento. Questa fu l’interpretazione della frase «senza oneri per lo Stato» data dal suo primo proponente Epicarmo Corbino, e tale interpretazione l’Assemblea Costituente accettò.I cattolici proponenti il nuovo progetto hanno trovato un brillante sofisma per aggirare l’ostacolo, col conforto di gius-pubblicisti, illustri ma anche assai cattolici: «senza oneri per lo Stato» si riferirebbe solo alle scuole private, ma non alle non statali «parificate» (una distinzione nuovamente definita nel progetto: le scuole parificate, sono, comunque, le sole che contino). Ma la storia dice che nella Costituente la questione «senza oneri per lo Stato» fu esaminata in una lunga discussione nella quale non si distinse in nessun modo tra i vari tipi e livelli di scuola privata.Insomma, il progetto democristiano rivela un animus intensamente non-costituzionale, e sottende a un discorso ambiguo una forte volontà d’affermazione confessionale.

Per i laici, la risposta viene da sé, ma per i democristiani che debbono rispetto a sé stessi come partito autonomo e laico della democrazia, la questione è decisiva.
II processo di «laicizzazione» della Democrazia cristiana del quale da molto tempo, con ac-centi convinti e onesti, parla Ciriaco De Mita, c’è da dubitare assai che si vada attuando: sem-mai, al contrario, la DC subisce ormai una pressione crescente della Chiesa e del mondo cattolico più integralista.Diciamo «subisce», poiché non è da credere che per la DC nel suo insieme, e considerata nella sua lunga e complessa storia, il proposito di rappresentare veramente la soluzione laica dell’antico problema della presenza politica dei cattolici in Italia non fosse e non sia autentico e sentito. Ma accanto al subire, c’è anche un ricercare e un volere: ancora una volta, infatti, si manifesta la contraddizione irrisolta della DC, partito dei cattolici, ma anche partito cattolico; partito che fa politica tenendo conto dei princìpi cattolici, ma anche partito che tende a tutelare gli specifici interessi della Chiesa, in specie quegli italiani.Certo è che la gravissima preoccupazione di recuperare, per le imminenti elezioni e per il seguito, forza, prestigio ed egemonia, risospinge la DC nelle braccia più che mai accoglienti e materne della Chiesa e del cattolicesimo militante. Il timore (comprensibile del resto) del sorpasso comunista, la vissuta amara esperienza di una lunga crisi di potere, di linea, di direzione interna ed esterna, non può non indurre la DC a fare appello a tutte le fonti di potere e d’ispirazione che la aiutino, nello stile del ’48, a convogliare ogni possibile consenso verso le sue liste.

Fare appello, ma anche accettare: l’iniziativa è forse più della Chiesa e dei cattolici integralisti, Movimento Popolare, OPUS DEI, ecc., verso la DC, che non il contrario. Ma la DC, comunque deve accettare e accetta. Se il nuovo abbraccio tra politici, ecclesiastici e laicato cattolico sotto il segno d’una tenace missione di potere porterà fortuna alle liste democristiane, è da vedere. Ma il fenomeno è in atto: ed è giusto chiamarlo una regressione, una delle tante che provano quanto grave e senza luci sia la crisi del sistema politico e morale della nostra repubblica democratica.Ma guardare solo al fenomeno politico non basta. La Chiesa italiana, infatti, non fa che cogliere l’occasione della debolezza politica e sociale della DC (col complesso di paure che essa evoca) per intervenire e proteggere; il suo disegno è ampio e discende dall’alto. Sta nell’interpretazione del Concilio Vaticano ii nel senso di un rinnovato e ammodernato slancio della Chiesa romana; nella convinzione che è giunta l’ora di iniziare la lotta contro la scristianizzazione del Paese, interpretata dalla Chiesa come pericolo grave per se stessa, ma anche come sintomo di sconfitta del laicismo politico e culturale, incapace d’impedire la decadenza morale e la morte di ogni valore.Il rafforzarsi della Conferenza Episcopale come presenza attiva, di collegamento efficace tra la Santa Sede e il suo territorio d’elezione storica e sacrale – l’Italia con Roma – è sempre più evidente. Se ne ebbe sentore, e forte, quando si stipulò il nuovo Concordato (il solo a non cu-rarsene, fu stranamente il governo guidato da un «laico»).

Ma il progredire politico delmovimento cattolico integralista e di quella sorta di massoneria clericale che è l’OPUS DEI (nessun papa laico esiste, ovviamente, che possa scomunicarla come Giovanni Paolo II scomu-nica ora la massoneria) non è fenomeno meno importante per la vita italiana.Per prima, è proprio la dc a dover subire e insieme invocare tali nuovamente forti presenze fideistiche; a rischio, però, di vedersi espropriata della propria autonomia. Poiché sta avvenen¬do, come provano i fatti e le liste elettorali, che i vescovi e gli arcivescovi impostano la lotta elettorale cattolica (e non solo per Roma e dintorni) e che il Movimento Popolare e l’OPUS DEI hanno il primato della guida della lotta.Qui si apre un capitolo che è assai più di storia della Chiesa e del cattolicesimo militante in Italia, che non di storia della democrazia politica cattolica.Per intimidire, si parla perfino di «guerra di religione», da evitare a ogni costo: un fantasma ridicolo, poiché in Italia troppo debole è l’elemento religioso non-cattolico, confinato in pacifiche e piccole minoranze, mentre i comunisti e anche molti laici tradizionali hanno assai più timore d’apparire anticattolici di quanto i cattolici ne abbiano d’essere e apparire anticomunisti e antilaici. Specie da quando il Papa polacco ha concluso, com’era naturale ed inevitabile, che nella sua universale opera di missione il primo posto spetta per sacro diritto alla terra che è monumento del martirio di Pietro e di Paolo.
Se c’è un dissenso che dovrebbe restare sereno e rispettoso, è quello tra i laici e cattolici sulla questione della scuola privata.

Ha ragione il professor Pazzaglia dell’Università Cattolica, quando nega l’opportunità e il valore di qualsiasi «crociata» dell’una o dell’altra parte. Lui e io siamo stati testimoni di un singolare evento: una conferenza sul tema del nuovo Concordato tenuta da me nientemeno che in un’aula dell’Università cattolica di Milano su invito di un gruppo di studenti di quell’università iscritti della Federazione Giovanile repubblicana. Il professor Pazzaglia è stato così gentile da venire ad ascoltarmi; e in quell’occasione ho potuto rendermi conto di persona di quanto, in effetti, i tempi siano cambiati in meglio.Niente crociate, dunque, ma ricerca d’una chiarezza delle posizioni, d’una critica delle incomprensioni, d’una corretta valutazione dei reciproci timori e diffidenze. Dato che non sto, né per fede professata, né per politica, né per cultura, nel campo cattolico, bensì in quello laico, la parte che mi spetta è di chiarire i timori e le diffidenze dei laici nei confronti delle iniziative cattoliche e democristiane riguardo alla scuola privata; sperando così di far cosa utile anche ai cattolici.La prima occasione di diffidenza è che l’esaltazione della scuola privata, in alternativa o in potenziale contrasto con quella statale, è riapparsa vigorosa all’orizzonte in coincidenza con la riorganizzazione dell’iniziativa della Chiesa in Italia, e col nuovo Concordato. È difficile infatti ammettere che le severe e soccorrevoli diagnosi della CEI, e altresì del Pontefice, nei confronti dello Stato, i fervidi propositi di «collaborazione» con lo Stato, la ricerca e il ritrovamento da parte della Santa Sede di uri rapporto diretto al miglior fine concordatario con la direzione del governo, anche a costo di mettere in secondo piano la sensibilità di molta parte del mondo cattolico-democristiano, e il rinnovato accoglimento alle spalle del mondo laico del sempre offerto, e dato, consenso comunista; è difficile, dicevo, ammettere che essendo tale il quadro, la riapertura clamorosa del discorso sulla scuola privata non si debba intendere come indizio di un ritorno dei cattolici organizzati all’attacco di quello Stato moderno, laico per definizione, che essi non hanno mai molto amato e che, ad onta di molti e generosi sforzi, non hanno mai vis-suto come valore.C’è forse da meravigliarsi se la cultura e la politica laica, che da tanti anni vive e lavora in un Paese dominato dall’influenza diretta e indiretta della Chiesa e del PCI, teme e sospetta nella nuova intraprendenza cattolica circa la scuola privata un’insidia pericolosa per la laicità della società e dello Stato? Tanto più in quanto quell’intraprendenza è nutrita da una ben strana e inesperta valutazione del «laicismo»: che quasi non sarebbe neppure una cultura, un valore ideale, una concezione del mondo e delle forze umane, ma solo un valore negativo, un non-essere; quindi, tutt’al più un atteggiamento di neutralità e di astinenza, un timido ritrarsi di fronte alle vere realtà operanti e contrastanti nel nostro Paese, cioè la fede e l’ateismo.Questa è dunque la prima ragione della diffidenza laica per il discorso cattolico sulla scuola privata: che esso sia la manifestazione d’uno spirito di superiorità che pretende di ottenere riconoscimento ufficiale da parte di uno Stato, come «laico», inferiore, e perciò utile solo quale strumento al servizio del credente che sa ridurlo ai propri interessi.Un secondo motivo di diffidenza sta nella grave ambiguità del discorso sulla scuola privata come oggi viene condotto.

Se si parlasse infatti di una scuola privata che fornisce servizi di obiettività culturale e pedagogica eguale a quelli che per istituto rende la scuola statale, non vi sarebbe questione. Ma non è affatto questa la scuola privata che si avanza come alternativa della scuola di Stato: non è la scuola privata non-confessionale, laica in senso proprio, bensì quella che privata è solo per la legge, ma di fatto in maggiore o minor misura è confessionale; la scuola istituita e condotta da ordini e congregazioni religiose o da gruppi di osservanza cat-tolica – quella che a Roma con bella semplicità s’è sempre chiamata «la scuola dei preti». La quale, per quanto impartisca un insegnamento conforme alle norme della scuola di Stato sotto il controllo del ministero, certo non si astiene dall’esercitare un’influenza ideale, ideologica, fi-deistica, sugli studenti. Una scuola, del resto, in varia misura sotto il patrocinio e guida dell’Autorità ecclesiastica, e che in una «Associazione nazionale delle scuole cattoliche» ritrova il suo elemento di coordinazione e promozione.È appunto di questa scuola che il progetto di legge democristiano si occupa, sotto veste di occuparsi della scuola genericamente non-statale. La coscienza popolare, quando dice che i democristiani «chiedono che lo Stato finanzi la scuola dei preti», non si esprime con finezza giuridica e culturale, ma coglie nel segno.E non si portino in campo gli esempi europei di finanziamento dello Stato alle scuole private, comprese quelle confessionali.

Poiché in Germania o in Olanda, non c’è solo la confessione cat-tolica; in Italia, la prevalenza cattolica e della Chiesa cattolica è assoluta. Se noi avessimo a che fare con scuole cattoliche, luterane, riformate, metodiste, e via dicendo, il discorso sarebbe per forza diverso.Queste sono solo alcune delle ragioni per le quali chi sente la funzione dello Stato laico in Italia come una funzione veramente autonoma, con doveri superiori rispetto a tutta la colletti-vità, si preoccupa che possa rompersi il difficile equilibrio tra le ragioni di questo Stato e la pressione di una «parte» – quanto si vuole autorevole – quale è la Chiesa. Crociata chiama crociata; e diffidenza chiama diffidenza. Ma basta sapere dove si è e chi si è, perché tutti i discorsi diventino più chiari e i conflitti dominabili.
Le parole pastoralmente superbe apparse nei testi recentemente dedicati dal Vicariato alla questione di Roma – una vera e propria, seppure all’inverso, «questione romana»? – nella po-lemica con l’«Unità», vanno segnalate non tanto perché specialmente nuove, che tali non sono, ma per il quadro complessivo dei rapporti tra Stato e Chiesa, tra laicità e cattolicesimo ecclesiastico e politico, nel quale s’inseriscono e significano. Quadro complicato e oscuro, non privo di elementi che turbano chi abbia a cuore la serenità delle cose italiane, i buoni rapporti con la Chiesa, la democratica tolleranza delle idee e degli interessi. Oltreché (ma è un discorso, seppur collegato, diverso) le possibilità d’una buona amministrazione della capitale d’Italia.

Il quadro di questa «questione romana» è caratterizzato da alcuni dati che occorre sottolineare. Anzitutto, la particolare atmosfera di révanche che caratterizza la rinnovata presenza maggioritaria democristiana a Roma. Per la prima volta dal ’46 accade infatti che la DC «ritorni» a essere maggioranza a Roma. Lo fu sempre, fino al ’75; da allora è stata minoranza, rispetto ai comunisti. Ebbene, il ritorno al potere sembra caricare la presenza democristiana d’un trionfalismo che la vecchia DC non conosceva più da tempo.Il secondo dato della situazione è che questo grande ritorno della DC si colloca in una fase di vigorosa ripresa dell’iniziativa della Chiesa in Italia. Le due cose, del resto, non sono disgiunte, se è vero che nell’azione di propaganda e indirizzo dei voti di simbolo e di preferenza forte è stato l’impegno delle organizzazioni cattoliche laicali più spiritualmente e fisicamente legate al-la Chiesa italiana, CL, MP e OPUS DEI. La fedeltà alla gerarchia riappare ora in forma diretta ad influenzare la DC.Ma ciò che più di tutto vale è che il Vicariato di Roma, nella persona del Vicario pontificio, è l’effettivo rappresentante del Vescovo di Roma, il Papa. Quali che siano le personali inclinazioni del Vicario, egli deve rappresentare il Papa e in effetti lo rappresenta. Il fatto che la politica (o la si chiami azione pastorale) del cardinale Poletti nei confronti delle forze laiche e di sinistra a Roma sia oggi diversa, come in specie i comunisti lamentano sorpresi, da quella che fu o parve essere dieci o cinque anni fa, non si spiega certo con un semplice mutare delle opinioni del suddetto cardinal Vicario, bensì col mutare di posizioni del Papa sulle cose romane, e non solo romane.

Anche questa, in sé, non è una novità, tutt’altro. Ma se sommiamo il fatto che la vo-lontà del Papa si esprime (mediante il suo Vicario) in forma pastoralmente superba nei confronti di Roma, al fatto che le forze legate alla gerarchia italiana (e dunque al Papa, primate d’Italia e patriarca d’Occidente) dominano nella DC romana in un contesto morale, psicologico e politico di révanche, ecco che emerge un quadro sostanzioso e preoccupante; tale che ben difficilmente un eventuale placarsi delle polemiche e una ripresa di migliori rapporti diplomatici tra laici, sinistra e democristiani a Roma potrà cancellare.Il chiodo che inchioda quest’arca santa di Roma è l’art. 1 ° del nuovo Concordato. È eviden-te, infatti, che il Papa predicando, proponendo, ammonendo in materia morale e politica, anche a proposito di concretissime realtà come l’amministrazione capitolina, non fa altro se non inter-pretare a suo modo la «collaborazione» che la Chiesa deve allo Stato italiano in prò dell’ele-vazione dell’uomo e del bene del Paese, sancita da quell’art. 1°, uno dei più preziosi gioielli usciti dalle mani degli orafi della diplomazia vaticana in questo secolo.È sempre stato impossibile far valere completamente il principio che la Chiesa deve occuparsi solo di cose spirituali, astenendosi dalla politica; poiché la Chiesa accetta sì quel principio, ma non secondo l’interpretazione che ne dà il pensiero politico moderno, bensì se-condo la propria, che presuppone il primato assoluto dei valori religioso-ecclesiali sulle cose umane, e dunque sulla politica.Giorni fa, il ministro della Pubblica istruzione Franca Falcucci forniva alle commissioni Pubblica istruzione del Senato e della Camera alcune informazioni su quella che definì una «bozza» dell’Intesa con la Conferenza Episcopale sull’insegnamento della religione cattolica nelle scuole italiane.

Da quel che si capiva, il testo vero e proprio dell’Intesa non era ancora definito e nulla faceva credere che la conclusione del lavoro fosse imminente.Le parole del ministro, del resto, furono sintetiche e brevi; pertanto, le richieste di chiarimento dei parlamentari presenti e la discussione che ne seguì (una discussione che inizialmente non era neppur certo che dovesse aver luogo) furono soprattutto generali e tutt’altro che sistematiche. Comunque, si espressero preoccupazioni e furono dati consigli su punti particolari; l’atteggiamento del ministro era di vivo interesse e disponibilità a riflettere e a tener conto dell’andamento del dibattito nel corso delle ulteriori trattative con la CEI su questo tema di grande importanza, attorno al quale da tempo è desta l’attenzione e la cura del mondo della scuola, delle minoranze religiose, delle associazioni d’insegnanti, dei partiti e dell’opinione laica.Ciò avveniva, per l’esattezza, mercoledì 11 al Senato e giovedì 12 alla Camera.
Parte seconda
* Laicismo in terra martyrum, cap. III, Italia paradiso perduto, Garzanti, 1988
Digitalizzazione dall’originale a cura:CIRCOLO PADOVANO DI LIBERTÀ E GIUSTIZIA

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