Ragionare sull’identità del Partito democratico significa individuare i compiti che deve affrontare, la funzione che è chiamato ad assolvere. La sfida entro cui collocare il nostro ragionamento è il rinnovamento della democrazia di fronte ai colossali mutamenti che si sono innescati a partire dagli anni settanta e che sono comunemente definiti con il concetto di globalizzazione: la liberalizzazione dei movimenti di capitale, che ne ha indotto l’incremento esponenziale al di fuori del controllo degli stati; l’ascesa di nuovi protagonisti economici e politici soprattutto in Asia e l’affermazione di una nuova divisione internazionale del lavoro accompagnata da un poderoso ciclo di innovazione tecnologica; la crescente terziarizzazione delle società occidentali e l’emergere di soggettività e bisogni inediti; l’irrompere sulla scena mondiale di popoli e culture differenti. Tali mutamenti hanno minato i fondamenti della democrazia a base statal-nazionale. Da un lato infatti le basi sociali dei soggetti che ne avevano promosso lo sviluppo sono state erose; dall’altra sono divenuti in parte inefficaci gli strumenti – l’economia mista, il keynesismo nazionale – con cui quei soggetti avevano saputo creare un circolo virtuoso tra sviluppo ed equità, realizzando una straordinaria “civilizzazione” della società europea. Infine, la globalizzazione ha travolto il vecchio sistema internazionale bipolare entro cui la democrazia aveva potuto prosperare in Europa occidentale, senza che sulle macerie del muro di Berlino nascesse un nuovo ordine mondiale capace di assicurare pace, sicurezza e sviluppo sostenibile.
Di fronte a mutamenti di questa portata, tutte le culture politiche del novecento sono impegnate in un profondo ripensamento.
I protagonisti della democrazia sociale postbellica – i cattolici democratici, i socialisti, i liberaldemocratici – si misurano non da oggi con le sfide inedite della democrazia contemporanea per delineare una nuova configurazione del riformismo, ridefinendone obiettivi e strumenti. E’ un processo che in Europa investe la natura e il profilo stesso delle grandi famiglie politiche, e i caratteri di un’articolazione dei diversi sistemi politici nazionali che non appare ancora in grado di offrire una solida guida alla società europea ed alla sua integrazione politica.
In Italia questo compito è particolarmente urgente, perché le modalità drammatiche con cui è precipitata la crisi del vecchio sistema politico hanno reso più acuto che altrove il problema della debolezza della democrazia e dei suoi soggetti. La sfida che abbiamo davanti è ben più impegnativa che rimediare ai danni prodotti nell’ultimo quinquennio. I mali di cui soffre l’Italia sono più profondi, e la stessa anomalia della destra italiana ne è un sintomo assai più che una causa. Alla radice della crisi del paese vi è il drammatico deficit di politica che ha caratterizzato l’epilogo della “prima repubblica” e la successiva interminabile transizione, e che si manifesta nell’assenza di grandi partiti.
La sconfitta del centrodestra e la bella vittoria del no al referendum costituzionale inducono a pensare che la lunga stagione dell’antipolitica, che ha fatto velo alla realtà di un drammatico declino dell’Italia, sia giunta al capolinea.
Esiste nel paese una forte domanda di democrazia, ossia di una politica forte ma dotata di “misura”, capace di favorire e organizzare la partecipazione dei cittadini ed allo stesso tempo di definire ed indicare una direzione di marcia, una prospettiva, un orizzonte. E’ un’esigenza che viene d’altronde corroborata dalla percezione che anche sul terreno internazionale siamo dinanzi ad un cambiamento di fase. Sono infatti in crisi le due principali culture politiche che, variamente combinate tra loro, hanno dominato la prima fase dell’epoca della globalizzazione: l’idea di una fine della storia che imporrebbe di adeguarsi agli imperativi di un mercato globale considerato di per sé in grado di produrre benessere e pace; e l’idea che i processi mondiali possano essere decifrati con gli strumenti della geopolitica o interpretati come “scontro di civiltà”, e che implica un ritorno alla logica amico\nemico, al ripiegamento identitario, al protezionismo, alla guerra. Tali visioni, e le politiche che da esse hanno tratto ispirazione, si sono dimostrate drammaticamente inadeguate a comprendere il mondo di oggi, a governare i suoi conflitti, al punto da imporre a tutti, ce lo dicono le cronache di questi mesi, un ripensamento e la ricerca di strade nuove per la politica.
Sono quindi le grandi cose del mondo e le vicende del nostro paese che ci parlano della necessità e della possibilità di dare vita in Italia a un grande Partito democratico, e che ci impongono di costruire non un nuovo partito ma un partito nuovo, cioè una forza capace di interpretare le novità della nostra epoca e di cogliere le opportunità della fase che si sta aprendo.Questo progetto nasce dall’Ulivo, che fin dal 1995 si è configurato come l’embrione di un possibile nuovo soggetto politico, e che con il successo della lista unitaria e la formazione dei gruppi parlamentari unici ha compiuto già una parte significativa del cammino verso il Partito democratico.
Le profonde divisioni sociali (divisione tra classe operaia e ceto medio), culturali (incomunicabilità ideologica tra movimento socialista e cattolicesimo politico) internazionali (guerra fredda) e politiche (presenza di un forte partito comunista con le caratteristiche del Pci) che avevano dato forma al sistema politico della “prima repubblica” e alla divisione dei riformisti sono venute meno. C’è nel paese un’unità profonda tra gli elettori dell’Ulivo che costituisce la potenziale base per un nuovo partito, mentre l’esperienza delle primarie ha dimostrato l’esistenza di una forte spinta alla partecipazione che va oltre il perimetro dei partiti esistenti. Perché questo processo giunga a compimento occorre però affrontare un nodo ineludibile, la cui importanza è persino superiore a quella delle regole e delle tappe del processo unitario: il nodo della cultura politica. Se vorrà essere un organismo vitale e duraturo, il Partito democratico dovrà infatti affondare le sue radici in una nuova cultura politica, ossia definire una propria visione del paese e dei processi internazionali, affrontare la questione dei valori e dei principi, delineare un “programma fondamentale”.
In questa ricerca non siamo soli e non partiamo da zero. Lo sforzo di revisione e di elaborazione che vede impegnate, non solo in Europa, le principali forze socialiste e democratiche, fa intravedere i contorni di un nuovo grande campo riformista che si caratterizza per l’incontro tra culture politiche differenti.
Il terreno di tale incontro è una percezione della globalizzazione che si fonda sul riconoscimento del destino comune del genere umano nell’epoca dell’interdipendenza e che per questo è profondamente diversa da quella che caratterizza le forze conservatrici. E’ una visione che riconosce e valorizza le straordinarie opportunità che derivano dalla capacità della mondializzazione del capitalismo di favorire lo sviluppo delle forze produttive. E’ inoltre pienamente consapevole sia dell’inadeguatezza di molti dei tradizionali strumenti di regolazione dell’economia su base nazionale, sia del ruolo importante che, nell’epoca dell’economia della conoscenza, figure sociali nuove legate al mondo dell’impresa, delle professioni, dei servizi, della comunicazione, particolarmente sensibili ai temi delle libertà economiche individuali, devono avere in un blocco sociale democratico e riformista.
Allo stesso tempo, il riformismo considera l’assetto del sistema politico, economico e finanziario internazionale che ha preso forma a partire dagli anni novanta non solo ingiusto, perché portatore di grandi asimmetrie nella distribuzione della ricchezza, ma anche instabile, poco efficiente e poco sicuro. Instabile perché fondato su crescenti pericolosi squilibri finanziari, come dimostra il livello del deficit corrente degli Stati Uniti e la corrispondente sottovalutazione delle monete dei paesi emergenti. Poco efficiente, perché una distribuzione della ricchezza che penalizza il lavoro rischia di comprimere la domanda globale, perché nell’economia della conoscenza la mancanza di coesione e di investimenti sul capitale umano e sociale ostacola lo sviluppo, e perché la ricerca del profitto immediato da parte degli intermediatori finanziari globali molto spesso scoraggia gli investimenti produttivi a lungo termine.
Infine insicuro, perché l’unilateralismo e l’idea della guerra come strumento per l’“esportazione” della democrazia si sono dimostrati inadeguati a risolvere i conflitti e ad affrontare la minaccia del terrorismo, e perché l’assenza di un governo democratico dello sviluppo accentua le minacce per l’ecosistema.
La globalizzazione non è dunque politicamente neutra e le sue forme, profondamente segnate fino ad oggi dalla rivoluzione neoconservatrice e dall’unilateralismo, sono ora finalmente in discussione. Essa non pone insomma solo problemi di competitività a cui adeguarsi, ma costituisce anche un terreno di lotta politica e di iniziativa per affermare un diverso modello di regolazione dell’economia e delle relazioni internazionali.
Per questo, la politica democratica deve oggi collocarsi oltre la dimensione dello stato nazionale e delle sue istituzioni, entro le quali essa è stata sinora pensata e praticata. Da un lato, superando le tradizionali visioni della politica internazionale fondate sulla coppia amico\nemico, e facendo scaturire dai principi di unità del genere umano e di interdipendenza la necessità di concepire l’azione politica in una dimensione globale e di rafforzare il tessuto delle istituzioni internazionali. Dall’altro valorizzando in forme nuove la sfera della società civile: non solo come il terreno entro cui si svolge il conflitto tra gli attori del mercato e la competizione per il governo delle istituzioni dello stato, ma come un ambito, definito dall’incontro tra l’etica e la politica e strutturato intorno ai suoi corpi intermedi e alle sue culture, che costituisce una dimensione fondamentale della democrazia.
Questa idea della democrazia presuppone un robusto fondamento etico all’azione politica.
Ciò rimanda ai grandi principi, elaborati dal liberalismo, dal socialismo e dal pensiero cristiano, che sono alla base del processo di integrazione e del modello sociale europeo: la libertà, la giustizia e la solidarietà, che vengono declinati e combinati in forme in parte nuove. La libertà da interventi e costrizioni esterne, ma anche intesa come l’effettiva capacità delle donne e degli uomini di costruire la propria esistenza; la giustizia come eguaglianza di opportunità e diritti della persona; la solidarietà come impegno per il bene comune, divengono infatti, ancor più che in passato, principi reciprocamente necessari. Nel loro inscindibile intreccio, essi connotano la democrazia non solo come una procedura ma come sforzo per la promozione della piena libertà della persona umana. E ciò sulla base di un’impostazione che supera ogni economicismo e riduzionismo sociologico mettendo al centro la persona come soggetto irripetibile, ma che respinge la visione utilitaristica che concepisce gli esseri umani come meri massimizzatori di interessi individuali, e considera l’individuo una persona sociale, attore consapevole dei grandi processi politici che attraversano il mondo contemporaneo.
Questa visione della globalizzazione e i principi regolativi che da essa originano stanno generando le idee fondamentali di un nuovo riformismo. In Europa gli esiti di tale esperienza coincidono in gran parte con gli obiettivi e i percorsi stessi del processo di integrazione. In virtù dei suoi valori fondativi, del suo modello sociale, del metodo e delle istituzioni su cui si basa, l’Unione europea prefigura infatti un’inedita “potenza civile”, che può essere protagonista dell’edificazione di un nuovo sistema mondiale multilaterale e democratico, promuovendo una visione più umana e più efficiente del “governo del mondo”.
Per far ciò, l’Europa deve però trovare la strada per un governo unitario del proprio sviluppo e della propria azione internazionale: deve raggiungere una dimensione compiutamente politica. Ciò presuppone un rinnovamento della politica europea e dei suoi soggetti, che punti a colmare il vero e proprio “vuoto di egemonia” che caratterizza la scena politica continentale, e che sfida i riformismi europei a ripensare se stessi e ad allargare i propri confini.
Il nuovo riformismo europeo si definisce perciò per l’impegno a rilanciare il ruolo di attore globale dell’Europa, a promuoverne l’unità politica e ad affermare un modello di società della conoscenza fondato sull’innovazione, sullo sviluppo sostenibile e sulla coesione sociale. Esso si caratterizza per un forte intreccio tra sussidiarietà e solidarietà, che punta a rafforzare il coordinamento delle politiche nazionali e l’autogoverno delle comunità locali, e a promuovere lo sviluppo della società civile europea valorizzandone i corpi intermedi intorno ai principi della democrazia, del dialogo interculturale, della partecipazione e dell’inclusione.
L’intera esperienza dell’Ulivo si colloca in questo orizzonte, che è ora al centro dell’azione del governo e costituisce il principale punto di riferimento del “programma fondamentale” del Partito democratico. Non è necessario in questa sede analizzarne nel dettaglio i contenuti. Più utile può essere mettere in luce la peculiare visione dell’Italia che lo ispira e le sue linee di fondo, per evidenziare le innovazioni che lo hanno sorretto.
Si tratta di un aspetto cruciale, perché se i problemi e le sfide che il paese ha di fronte a sé sono comuni al resto del continente, ed essi non possono essere affrontati al di fuori del quadro europeo, il modo in cui si presentano, la loro forma, rimanda invece ai caratteri peculiari della vicenda storica nazionale. Siamo quindi chiamati a tradurre in termini nazionali la sfida europea e al tempo stesso a “europeizzare” il problema italiano, e ciò, come vedremo, riguarda sia la dimensione programmatica, sia quella della cultura politica e della natura stessa del nuovo soggetto riformista.
La crisi del paese si manifesta in una molteplicità di fratture sociali, territoriali, generazionali, di genere, e in una frantumazione localista e corporativa che lacera il tessuto della nazione e genera una conflittualità endemica, rendendo l’Italia vulnerabile al richiamo del populismo e mettendone in discussione la stessa unità. Tali fratture si sono accentuate in modo preoccupante dagli anni settanta, quando è iniziato il declino dell’economia italiana e del suo ruolo nella divisione internazionale del lavoro. Fu allora che i due pilastri dello sviluppo del paese, l’economia pubblica e il capitalismo familiare, persero la loro capacità di svolgere una funzione propulsiva. Il sistema delle piccole e medie imprese, che da allora in poi si è fortemente sviluppato, è stato a lungo ritenuto in grado di assumere il ruolo di “motore” della crescita del paese, ma di fronte alla sfida delle nuove economie emergenti risulta ormai chiaro che esso, pur costituendo una risorsa straordinaria, non è sufficiente ad arrestare il declino dell’Italia.
Quella che è in atto quindi è una vera e propria crisi del capitalismo italiano e del modello di sviluppo del paese, ma essa non è una crisi solo economica, bensì anche politica, culturale e morale: è una crisi di classi dirigenti.
Essa affonda le sue radici nel venir meno delle condizioni interne e internazionali del compromesso economico, territoriale, politico e istituzionale che aveva garantito per decenni il progresso del paese e la sua europeizzazione. Di fronte a ciò, le culture politiche italiane non hanno saputo rinnovarsi per tempo e guidare il processo di modernizzazione che la “repubblica dei partiti” aveva saputo promuovere. Questa sconfitta della politica ha reso più traumatico che nel resto d’Europa l’impatto della globalizzazione, e ha indebolito la capacità dell’Italia di adattarsi ai mutamenti della competizione internazionale. Ciò a sua volta ha determinato lo smarrimento della capacità del paese di pensare autonomamente se stesso, la propria storia, i propri destini. Dietro l’apparenza di un’acculturazione di massa, è maturata una frattura tra intellettuali e popolo che ha visto il declino delle istituzioni formative e dell’industria culturale, e la trasformazione della cultura in intrattenimento e veicolo passivo della società dei consumi. In questo quadro, il tessuto etico e politico della nazione si è inaridito, fino al punto di mettere in discussione l’unità degli italiani e il rispetto della legalità come principio elementare di convivenza.
Il Partito democratico nasce intorno alla consapevolezza che il paese ha bisogno di una guida politica.
Una guida capace di coinvolgere, intorno a una rinnovata idea dell’Italia, le migliori energie del paese in uno sforzo collettivo analogo a quello che nel secondo dopoguerra animò la ricostruzione e l’edificazione della democrazia. Porre il problema della nazione italiana su basi nuove significa avere una percezione realistica dei problemi del paese, ma anche delle sue grandi opportunità e responsabilità. Le opportunità che derivano dalle sue straordinarie risorse culturali e ambientali, dal genio del lavoro e dell’impresa italiani, dal ruolo che l’Italia ha di ponte tra l’Europa ed un continente asiatico che, dopo cinque secoli di ripiegamento, torna ad essere un protagonista dell’economia mondiale; le responsabilità che discendono dalla sua peculiare natura di centro mondiale della cristianità.
L’elaborazione e l’esperienza di governo dell’Ulivo delineano i contorni di un programma all’altezza di tali ambizioni, che punta a ricucire il tessuto nazionale e a rilanciare la missione dell’Italia nel mondo. Il punto di partenza è che l’interesse europeo e quello italiano in buona misura coincidono, ossia che i problemi fondamentali del paese possono essere avviati a soluzione solo se progredisce l’unità politica dell’Europa. D’altronde l’Ulivo nasce non a caso dall’unione dei diversi filoni dell’europeismo italiano, e ha fatto della politica europea il terreno qualificante della propria azione politica. La nuova politica estera italiana è caratterizzata infatti dall’impegno per la definizione di un interesse comune europeo e per l’affermazione dell’Europa sui grandi temi dell’agenda internazionale, a cominciare dal problema mediorientale.
L’obiettivo è il rilancio del multilateralismo e di un “governo sussidiario dell’ordine mondiale” che dia efficacia e legittimità all’azione della comunità internazionale valorizzando la dimensione regionale nel quadro di una rinnovata centralità delle Nazioni Unite. Si tratta di un’impostazione che, di fronte ai limiti dell’unilateralismo e ai fallimenti della nuova dottrina statunitense di sicurezza nazionale, può essere vista dagli stessi Stati Uniti come un’opportunità per costruire un partenariato euro-atlantico più efficace di quello basato sulla coalizione dei “volenterosi”. Allo stesso tempo, essa consente uno sviluppo di quel dialogo interregionale nei confronti dell’Asia, dell’America latina, dell’Africa e dei paesi del Mediterraneo, che è reso indispensabile dal carattere sempre più multipolare del sistema internazionale e dal rischio di uno spostamento dell’asse dello sviluppo mondiale nel Pacifico intorno alla cosiddetta “nuova Bretton Woods” tra Stati Uniti e Cina.
Contribuire a rendere l’Europa un attore globale significa quindi affrontare sia le questioni della pace e della sicurezza, che quelle riguardanti la collocazione del nostro paese nella divisione internazionale del lavoro. Nel contempo, l’avanzamento del processo di integrazione e la definizione di una politica economica europea comune costituiscono le condizioni per affrontare i problemi della competitività nella prospettiva dello sviluppo. La disciplina dell’unione economica e monetaria è essenziale non solo per evitare una drammatica crisi finanziaria ma anche per superare il “circolo vizioso della rendita” affermatosi negli anni ottanta e liberare risorse per gli investimenti.
Allo stesso tempo, la decisa politica riformatrice che deve affiancarsi all’azione di risanamento può avere efficacia solo se saprà affrontare la specificità dei problemi dell’economia italiana in modo coerente con gli indirizzi di Lisbona, nel quadro di un più efficace coordinamento europeo delle politiche economiche e della realizzazione di grandi programmi europei di investimento nella ricerca, nell’innovazione, nel potenziamento delle imprese strategiche e nelle infrastrutture.
L’azione del governo si colloca pienamente in questo orizzonte. Preso atto dei limiti della retorica del “piccolo è bello” e della “centralità dell’impresa”, che aveva condizionato il discorso pubblico anche a sinistra negli anni novanta, l’obiettivo principale è infatti quello di far crescere le imprese, spostarle verso l’economia dell’informazione ed affermare la logica dell’investimento industriale rispetto a quello finanziario approfittando delle opportunità di internazionalizzazione finanziaria create dall’Uem e della nascita di grandi attori bancari di dimensioni finalmente europee. Ossia di promuovere una riforma del capitalismo italiano ed una sua europeizzazione da un lato con l’introduzione di una maggiore “concorrenza regolata” nei mercati e spostando risorse dalla rendita al lavoro e agli investimenti, e dall’altro attraverso una nuova politica industriale fondata sulla riqualificazione dell’intervento pubblico verso le grandi reti infrastrutturali ed i settori emergenti.
Un analogo mutamento di paradigma, a un tempo più “nazionale” e più europeo, riguarda il problema del Mezzogiorno, che dopo una lunga eclissi della nozione stessa di “questione meridionale” viene finalmente concepito come una grande macroregione che ha bisogno di più mercato, sicurezza e regole certe, e di un impegno politico ed economico straordinario per farne la piattaforma logistica e commerciale dell’Europa nel Mediterraneo.
Anche la realizzazione di un nuovo patto sociale più equo socialmente e generazionalmente e più capace di promuovere lo sviluppo passa per una maggiore europeizzazione del welfare, che disegni una nuova idea della cittadinanza e di accompagnamento della vita attiva capace di conciliare flessibilità e sicurezza, di coinvolgere di più le comunità locali e la società civile, di puntare all’inclusione dei lavoratori immigrati nel circuito della rappresentanza e dei diritti politici e sociali.
Tali obiettivi si collocano in uno scenario europeo ma presuppongono la ricostruzione di una statualità condivisa. Ciò impone una riflessione critica sulle riforme elettorali, costituzionali e amministrative del decennio passato. Impostare il tema delle riforme elettorali e costituzionali nella prospettiva di una nuova democrazia dei partiti fondata sull’alternanza, costituisce senza dubbio una grande sfida politica e culturale. Essa si collega all’esigenza (emersa anche nel seminario di Frascati dei gruppi parlamentari dell’Ulivo) di promuovere un riequilibrio tra rappresentanza e decisione per temperare gli eccessi di leaderismo emersi nel corso degli anni novanta. Per quanto riguarda il federalismo, rimediare alla insufficienza del modello funzionalista di integrazione europea e della connessa idea dell’“Europa delle regioni”, non significa certo rinunciare alla sussidiarietà e alla valorizzazione dei territori. Ma ciò richiede da un lato un più forte inquadramento del sistema delle autonomia nella cornice dell’interesse nazionale, e dall’altro una migliore applicazione del principio di responsabilità, basata su un qualche tipo “sussidiarietà fiscale” che colleghi in modo più trasparente e diretto l’erogazione dei servizi alla corrispettiva tassazione.
Infine, è urgente una riflessione sull’effetto che un meccanismo dell’alternanza fondato su partiti deboli e privo di solidi contrappesi istituzionali sta avendo sulla pubblica amministrazione, innescando in diversi ambiti un sistema di “spoil system cumulativo” che ne aggrava i costi, ne riduce l’efficienza e la terzietà, e incentiva la tendenza a utilizzarla come strumento per la retribuzione di funzioni parapolitiche.
Sono sfide ambiziose. Per affrontarle e vincerle un buon governo e delle buone leggi sono essenziali, ma non bastano. Lo abbiamo già sperimentato negli anni passati: il riformismo dall’alto, il riformismo senza partiti, non riesce ad affermarsi. Il riformismo di governo ha bisogno di una grande forza politica in grado di sostenere le riforme e di suscitare un moto profondo di partecipazione democratica intorno a un ambizioso disegno di riscossa nazionale. Questa forza può essere il Partito democratico, che si configura quindi come partito della democrazia. Un partito di governo, che sappia interpretare l’interesse generale e ponga fine a quella scissione tra premiership e leadership che ha a lungo segnato la politica italiana. Un partito popolare e non una rete di comitati elettorali: cioè una forza aperta alla società, radicata nel territorio, capace di rappresentare e dare voce ai bisogni e alle aspirazioni innanzitutto dei più deboli, costantemente impegnata a rendere partecipati e condivisi i processi di riforma. Un partito capace di contribuire al rinnovamento della cultura e delle strategie delle organizzazioni di interesse, perché siano costantemente capaci di aggiornare la loro visione dell’interesse generale.
Un partito di donne e di uomini, che riconosce le differenze di genere, promuove la libertà femminile, lavora per rafforzare il ruolo delle donne nella società e nella politica. Un partito né burocratico né leaderistico, ma plurale e democratico nella definizione dei programmi, nella scelta dei dirigenti, nella impostazione dell’azione politica. Un partito nazionale ed europeo, cioè radicato nella storia del paese e capace di interpretarne l’unità e gli interessi nel quadro della costruzione dell’unità politica dell’Europa. Un partito infine culturalmente attrezzato e dotato di una forte carica etica, che si ponga l’obiettivo di contribuire al rilancio dell’intelligenza italiana e alla ricomposizione del tessuto civile della nazione, che promuova e alimenti una vera e propria riforma intellettuale e morale.
Il primo aspetto di tale riforma riguarda il rinnovamento della cultura italiana. La globalizzazione e l’integrazione europea sfidano le culture nazionali a un rinnovamento per inserirsi in modo non subalterno nelle grandi reti transnazionali dei saperi e della circolazione delle idee. Ciò richiede innanzitutto che si restituisca qualità e spessore alla scuola, all’università, alla ricerca, prendendo anche atto dei limiti di un’impostazione troppo incentrata sul rapporto tra formazione e impresa (che per le ragioni sopra esposte in Italia non poteva che deprimere invece che stimolare la qualità e l’eccellenza), e valorizzando invece di più l’alta cultura e il merito.
E al tempo stesso s’impone il problema di un’industria culturale soffocata dal carattere oligopolistico del mercato pubblicitario e televisivo, così come quello di un giornalismo mortificato da un assetto proprietario della grande stampa che ne condiziona l’autonomia e il prestigio.
Tutto ciò è necessario e urgente, ma non è sufficiente. Alla politica non spetta solo il compito normativo di regolare sul piano delle leggi e delle istituzioni l’industria culturale e il mondo della ricerca e della formazione. Essa è chiamata a partecipare al rinnovamento della cultura nazionale sul terreno che le compete direttamente: l’elaborazione di una nuova cultura politica. Una cultura pluralista, capace di integrare le competenze delle diverse discipline, di riconoscere il limite della politica e al tempo stesso di innervare il discorso pubblico. Una cultura che aiuti l’Italia ad avere una concezione di se stessa più realistica e più alta di quella, egemone tra i suoi gruppi intellettuali, che ha sempre motivato la diffidenza verso ogni allargamento delle basi della democrazia e l’ostilità per i soggetti che la promuovono sulla base dell’idea di una comunità nazionale irrimediabilmente attardata rispetto alle grandi nazioni europee perché priva dell’eredità della riforma protestante, del senso dello stato e dell’etica pubblica.
Quanto fin qui esposto credo metta in evidenza come le analisi e i programmi maturati attraverso l’esperienza dell’Ulivo, così come i principi e i valori che li ispirano, contengono i semi di una nuova cultura democratica.
Affinché essa possa svilupparsi è però necessario misurarsi con il tema della visione del passato, che della cultura politica dei partiti costituisce uno dei principali fondamenti. Una delle ragioni dei limiti e del carattere incompiuto della transizione italiana risiede proprio nell’inadeguatezza dell’interpretazione della storia del paese (“cinquant’anni di partitocrazia”) e del Novecento (“il secolo delle ideologie e dei totalitarismi”) su cui si è basata la cultura politica della “seconda repubblica”. Oltre a condizionare ricette che hanno spesso aggravato anziché guarire i mali del paese, tale visione demonizzante della storia della prima repubblica e l’ostinata volontà di farne “tabula rasa” ha prodotto l’esito opposto, tipico di ogni tentativo di rimozione del passato, di impedire una compiuta elaborazione di quell’esperienza e un effettivo superamento di molti dei suoi aspetti più caduchi. Ciò ha favorito il protrarsi di un’interminabile transizione, in cui il passato riaffiora costantemente nella vita pubblica non già come un patrimonio di esperienze da cui attingere l’eredità migliore, quanto piuttosto come un “morto che afferra il vivo” e gli impedisce di crescere e di svilupparsi. Se vorrà essere solida e duratura, l’innovazione politica e culturale che il nuovo partito deve promuovere dovrà dunque poggiare su una seria rielaborazione della vicenda storica italiana ed internazionale, e su uno sforzo coraggioso di revisione condivisa che non disperda ma rinnovi il patrimonio culturale della democrazia italiana.
D’altronde, la visione del paese che ispira il programma dell’Ulivo e la stessa idea dell’unità dei riformismi presuppongono già un diverso modo di guardare al passato, che non elimina la pluralità di giudizi e interpretazioni, e contiene alcuni elementi comuni.
Essi possono essere sintetizzati nella consapevolezza che un partito utile per il paese deve avere solide radici nell’esperienza storica della democrazia italiana e dei suoi diversi protagonisti, ma che le eredità delle differenti culture politiche che hanno animato la storia del riformismo italiano (il riformismo cattolico-democratico, il “riformismo di fatto” del Pci, il riformismo socialista, quello liberal-democratico, così come le culture che hanno già contribuito al rinnovamento di quelle tradizioni arricchendone la sensibilità sui temi della libertà femminile, della pace, dei diritti, dell’ambientalismo) sono ciascuna necessaria e nessuna sufficiente a fornire la base per l’elaborazione di una nuova cultura democratica. Ciò rimanda a uno specifico tratto distintivo dell’esperienza storica repubblicana, che ha visto tra i principali protagonisti della vita politica due partiti peculiari come la Dc e il Pci, più “adatti” di altri a promuovere il radicamento della democrazia in un paese arretrato e in cui era mancata una nazionalizzazione progressiva delle masse. Di qui la forma specifica di un sistema politico privo di una grande forza socialdemocratica, in cui il riformismo di governo della Dc ha convissuto con le correnti conservatrici nel quadro dell’unità politica dei cattolici, il Pci ha dato vita a un originale intreccio di riformismo e massimalismo che ne fece un attore di primo piano della costruzione della democrazia e stimolò le forze di governo riformatrici, ma che per i suoi legami internazionali non seppe mai costruire l’approdo dell’alternativa, mentre il Psi ha interpretato un riformismo per tanti aspetti moderno ed efficiente ma socialmente minoritario e politicamente fragile.
Infine, l’insufficiente o il tardivo rinnovamento dei grandi partiti ha allontanato da essi una parte significativa della borghesia e dei ceti intellettuali di ispirazione liberal-democratica, che hanno esercitato la loro influenza prevalentemente al di fuori dei partiti.
E’ un’eredità complessa. Per questo la cultura politica del Partito democratico non potrà basarsi su un affrettato tentativo di annullare le specificità e l’autonomia di queste diverse tradizioni, ma non potrà nemmeno scaturire dalla loro somma e neppure dalla loro semplice sintesi.
Ciascuna di esse è chiamata innanzitutto a riflettere sulla propria esperienza storica e a rinnovarsi, misurandosi con le nuove sfide del presente. Contemporaneamente, è importante che esse dialoghino tra di loro in modo approfondito, per gettare le basi di una visione comune del paese, dei suoi problemi e delle sue prospettive. In tale sforzo di revisione e di elaborazione, ciascuna cultura potrà trovare nel proprio patrimonio di idee le ragioni profonde della sfida che ci accingiamo a intraprendere e dei preziosi strumenti per poterla affrontare. Il Partito democratico potrà così essere legittimamente concepito come il luogo in cui perseguire l’ideale socialista del progresso e della liberazione dell’uomo, insieme a quello di un nuovo umanesimo e di una democrazia dei cristiani. Ma allo stesso tempo, attraverso il dialogo ognuno potrà scoprire nell’altro risorse inattese, che si potrebbero rivelare indispensabili per affrontare il compito di costruire la democrazia nell’epoca dell’interdipendenza e della globalizzazione.
La concezione cristiana della persona, della sussidiarietà, della responsabilità sociale e della tutela della vita non rappresenta forse un prezioso punto di riferimento anche per una sinistra che di fronte allo sviluppo delle soggettività è chiamata a superare ogni scoria di economicismo? O ancora: ponendosi il compito di decifrare e riformare un modello di sviluppo insostenibile e ingiusto, la tradizione cattolico-democratica non potrà trovare uno stimolo e un sostegno nella critica socialista delle contraddizioni del capitalismo e nella visione della politica come azione collettiva per trasformare la realtà?
Ed infine, la fortuna ormai decennale dell’esperienza dell’Ulivo non ha saputo interpretare un’aspirazione profonda di unità e di rinnovamento che sollecita tutte le tradizioni storiche del riformismo italiano a prendere atto dei propri limiti e delle proprie insufficienze, e che richiama la necessità di un’innovazione comune capace di coinvolgere soggetti, saperi e sensibilità nuovi? L’elaborazione di una nuova cultura politica non è quindi un compito banale, ma una sfida appassionante ed inedita, che dovrà accompagnare la nascita del Partito democratico e i cui esiti non possono essere predeterminati.
Questa impostazione può aiutare ad impostare su basi più solide anche la questione della collocazione internazionale del nuovo partito, andando oltre i veti incrociati e le pregiudiziali. Non c’è dubbio che il Partito democratico si configura come una forza pienamente inserita nel nuovo campo politico-ideale democratico e riformista che sta prendendo forma nel mondo.
Ed è altrettanto indubitabile che in Europa le forze organizzate nel Pse costituiscono la componente principale, anche se non l’unica, di esso. Tra queste ultime, figurano proprio i partiti socialisti e socialdemocratici che con più decisione sono stati e sono impegnati in un processo di rinnovamento che li porti a superare alcuni dei limiti che negli anni passati hanno contraddistinto il socialismo europeo. Tuttavia il caso del Partito democratico italiano è ancora differente, perché esso non rappresenta la ristrutturazione, anche radicale, di un vecchio edificio, bensì la costruzione di una nuova casa. La garanzia del raggiungimento di tale obiettivo sta nel fatto che il nuovo partito nasce dall’unione di soggetti diversi, tutti dotati di pari dignità, tra i quali la tradizione cattolico-democratica costituisce una componente rilevante tanto quanto quella socialdemocratica e quella liberaldemocratica. E lo è non solo in virtù della sua consistenza numerica ed elettorale, ma per ragioni profonde, che sono legate alla storia del paese e che non vanno concepite come un’anomalia da superare, bensì come un elemento distintivo dell’identità italiana, che costituisce una risorsa preziosa di fronte alla sfida della costruzione della democrazia nel XXI secolo.
Sulla specificità del Partito democratico come luogo dell’incontro dei socialisti e dei democratici, non dovrebbe esservi quindi discussione. Altro è però il problema, politico e non identitario, dei collegamenti internazionali del nuovo partito e dell’efficacia della sua azione in Europa e nel mondo.
Se è vero infatti che la progressiva formazione di un nuovo campo delle forze democratiche e progressiste, che trascende i tradizionali confini del socialismo internazionale, sfida il Pse a ripensare se stesso, allora è ragionevole auspicare che il Partito democratico contribuisca in prima persona a questo processo, ed è legittimo ritenere che la sua ispirazione europeista ed internazionalista non potrà che indurlo a evitare una scelta di isolamento. A sua volta, ci piacerebbe che il Pse e le altre forze riformiste europee cogliessero un’occasione così feconda di apertura e di dialogo, che può, dall’Italia, contribuire alla loro evoluzione, interloquendo fin d’ora con il cimento che abbiamo intrapreso.
L’ultima questione che vorrei toccare riguarda il rapporto tra etica e politica e tra religione e politica. Il punto da cui partire è la consapevolezza che il grande rinnovamento intellettuale di cui il paese ha bisogno non potrà essere disgiunto da quello morale. Se non vuole ridursi a semplice procedura o rappresentanza di interessi, la democrazia deve essere infatti innervata da forti motivazioni etiche, e ciò impone di misurarsi con il tema di un orizzonte etico condiviso e con la questione della laicità della politica. E’ necessaria però una premessa metodologica, che riguarda l’esigenza di considerare l’etica e la politica come attività distinte, ossia reciprocamente autonome anche se in rapporto tra loro. E’ una distinzione importante, perché la tendenza attualmente così diffusa a politicizzare le questioni etiche o ad affrontare i problemi politici con gli strumenti dell’etica costituisce un indicatore allarmante di una duplice crisi, che investe sia la sfera della politica che quella dell’etica.
Evitare commistioni improprie tra etica e politica è quindi la prima condizione per misurarsi con il problema vivissimo della decadenza morale del paese e della necessità di un orizzonte etico condiviso.
Per farlo, credo sia importante partire da un duplice presupposto. Da un lato, il riconoscimento che le energie morali che scaturiscono dall’esperienza religiosa costituiscono un alimento vitale per la democrazia soprattutto di fronte alle nuove sfide che essa è chiamata ad affrontare; dall’altro, la consapevolezza che, per svolgere questo ruolo, la religione non può che accettare pienamente la dimensione della laicità, che è il terreno che ha reso viva la sua presenza nel mondo contemporaneo. Ciò significa evitare, da parte di tutti, il piano dell’etica normativa e dei principi non negoziabili, che costituiscono un patrimonio inviolabile degli individui, e muoversi sul piano dell’etica condivisa. Un’etica del lavoro e della responsabilità, che si concentra sulle opere e sui progetti, un’etica della persona e del dialogo, aperta al confronto fra tutte le posizioni presenti nella comunità.
Tale approccio non riguarda solo la laicità dello Stato (che peraltro è già regolata in modo esemplare dalla Costituzione repubblicana), ma consente di affrontare anche il problema della laicità della politica, cioè del modo concreto di definire il sistema di valori con cui un partito politico affronta, nel suo agire, i problemi nuovi che sorgono dagli sviluppi delle scienze e delle tecnologie, dall’espandersi della convivenza multietnica e multireligiosa, dagli sviluppi della sovranazionalità.
Di fronte a questioni di tale portata, l’etica condivisa può consentire di realizzare non solo un reciproco riconoscimento di principi, ma anche di affrontare la sfida dell’elaborazione di una “tavola di valori” comuni a cattolici e socialisti, credenti e non credenti, intorno ai quali orientare la ricerca di soluzioni nuove ai problemi della nostra epoca.
Anche per questo, la costruzione del Partito democratico costituisce un’impresa appassionante e un laboratorio prezioso, che può contribuire in modo originale all’apertura di una nuova stagione della democrazia e della libertà.
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