Perché la stella della Repubblica sorga presto

03 Giu 2016

Tomaso Montanari

Care cittadine e cari cittadini della Repubblica, cari sovrani,

come vicepresidente di Libertà e Giustizia, a nome di tutta l’associazione, vi ringrazio e vi do il benvenuto.

Buon 2 giugno, buona festa della Repubblica!

Da storico dell’arte, vorrei aprire questa festa parlando di un’immagine. L’emblema della Repubblica: quello che vedete sulle pagelle scolastiche e sullo stendardo del Presidente, sulle targhe poste all’ingresso dei musei, e sulle fascette delle bottiglie di vino. Esso fu scelto attraverso due successivi concorsi, che selezionarono il disegno dell’artista Paolo Paschetto. E un decreto del primo presidente della Repubblica, stabilì: «L’emblema  dello  Stato,  approvato  dall’Assemblea Costituente con deliberazione del 31 gennaio 1948, è composto di una stella a cinque raggi  di  bianco, bordata di rosso, accollata agli assi di una ruota di  acciaio dentata, tra due rami di olivo e di quercia, legati da un nastro  di  rosso,  con  la  scritta  di bianco in carattere capitale “Repubblica italiana”».

La stella è il più antico simbolo dell’Italia: i Greci vedevano sorgere dalla parte del nostro paese, al loro occidente, la stella della sera, cioè il pianeta Venere, e chiamavano dunque l’Italia Esperia, cioè la terra del tramonto. E così lo ‘stellone’ è stato sempre raffigurato sulle figure dell’Italia. Oggi ci dovremmo ricordare che Venere è anche la stella del mattino. Dell’inizio, oltre che della fine. Ed è come la stella che annuncia il giorno che oggi vogliamo vederla: la stella che annuncia la fine dell’interminabile notte della Repubblica.

Non abbiamo il meglio della nostra storia alle spalle: se sapremo riprendere in mano le sorti della res publica, la democrazia italiana può avere un grande futuro. La ruota dentata d’acciaio è l’ingranaggio di una macchina: e rappresenta il lavoro, su cui la Repubblica è fondata. Perché solo il lavoro ci fa eguali, liberi e forti. Il ramo di quercia significa la forza e la fermezza dello Stato e del popolo italiano: ci ricorda come dovremmo essere. Forti nella difesa dei deboli e dei diritti: forti nell’accogliere chi fugge dalla guerra o dalla fame. Fermi nell’aprire i nostri confini ai migranti: fermi nel non cedere a chi solletica gli istinti più bestiali, l’egoismo più ferino.

L’ulivo è simbolo di una Repubblica pacifica, una Repubblica che «ripudia la guerra»: una Repubblica che non crede che la pace si costruisca con la guerra preventiva. Una Repubblica convinta che il terrorismo si sconfigge con l’integrazione, l’eguaglianza, l’istruzione, l’inclusione. Una Repubblica fermamente laica, ma profondamente rispettosa di ogni religione. Una Repubblica che rispetta i corpi dei suoi cittadini: anche quelli, anzi in particolare quelli, di chi ha violato la legge. Una Repubblica le cui carceri siano luogo di ricostruzione della cittadinanza e non luoghi di tortura.

Nei secoli passati gli stemmi e gli emblemi delle nazioni diventavano vere opere d’arte, scolpite e dipinte da grandi artisti: oggi non succede più, e forse il nostro stemma non è bellissimo. Ma è carico di significati: è un programma ancora tutto da attuare. Come la nostra Costituzione, che racchiude una rivoluzione promessa: e ancora non mantenuta.

Ormai si è avverata la profezia del presidente della Costituente, Umberto Terracini, che disse saggiamente: «credo che qualunque emblema, quando ci saremo abituati a vederlo, finirà per l’apparirci caro».

È la Repubblica che ci è cara, ed è del futuro della Repubblica che oggi vogliamo parlare. «La Repubblica non fu e non doveva essere soltanto un cambiamento di forma di governo: doveva essere, e sarà, qualcosa di più profondo, di più sostanziale: il rinnovamento sociale e morale di tutto un popolo; la nascita di una nuova società e di una nuova civiltà».  Così, festeggiando a Forlì, un due giugno di sessantuno anni fa, diceva Piero Calamandrei.

«La nascita di una nuova società e di una nuova civiltà»: quella nascita – lo ha ricordato in questi giorni Gianni Ferrara – la si vide subito, il 2 giugno del 1946: esattamente settant’anni fa. Per la prima volta, nei paesi del Sud, i signori e i braccianti, gli uomini e le donne, componevano un’unica fila, la fila davanti ai seggi. Quel giorno tutti gli italiani diventarono ciò che non erano da vent’anni, e che in fondo non erano del tutto mai stati: diventarono cittadini. E da quelle file, da quel voto uscì un messaggio chiaro e forte: gli italiani non volevano la monarchia, non volevano il simbolo di un uomo solo insostituibile e senza alternative, portato lì da poteri imperscrutabili. Non volevano l’unto del Signore. Volevano la repubblica.

Oggi, settant’anni dopo, anche noi vogliamo le stesse cose. Come le donne e gli uomini del ’46 anche noi vogliamo diventare cittadini: e per diventare cittadini ci servono scuole buone (cioè scuole molto lontane da una #buonascuola pensata per formare manovalanza per il mercato globale); ci servono giornali liberi dagli interessi dei loro editori; ci serve un’università pubblica in grado di fare ricerca. Un’università che non perpetui e sigilli, ma scardini le diseguaglianze sociali. Un’università che sia aperta, già domani, a coloro che arrivano sulle nostre coste sulle barche della disperazione e della speranza.

Ci serve alfabetizzazione, conoscenza, cultura: è questo è l’impegno di Libertà e Giustizia, aiutare gli italiani a diventare cittadini per via di cultura. E ancora. Come gli uomini e le donne del ’46, anche noi diciamo no alla monarchia.  Certo, oggi non si tratta di Casa Savoia. Ma se col voto di 70 anni fa eleggemmo la Costituente, oggi una revisione della Costituzione partorita da un Parlamento eletto con una legge fornalmente dichiarata incostituzionale punta a concentrare tutto nelle mani di un solo partito, a sua volta dominato da un uomo solo.

Proprio ieri il ministro dell’Economia, Carlo Padoan, ha detto che sulle riforme costituzionali il governo va «avanti tutta, a rischio di uno schianto». Questo linguaggio così inutilmente violento, così poco rispettoso e decoroso dice, suo malgrado la verità: il ministro si riferisce alle poltrone del governo. Ma il loro eventuale schianto non ci preoccupa.

Noi pensiamo che questo schianto rischia di colpire la qualità della nostra democrazia. E noi, a questa diversa e peculiare monarchia diciamo: NO. Diciamo no perché pensiamo che il vero monarca, nell’Italia disegnata dalla revisione costituzionale Renzi-Boschi-Napolitano, non sarebbe il Governo: ma il Mercato a cui, quel governo senza contrappesi e limiti, obbedirebbe.

La genesi ultraliberista della ‘riforma’ è apertamente dichiarata dai ‘padri’ de-costituenti. La relazione introduttiva alla riforma ammette che l’assetto istituzionale disegnato dalla Costituente (quella vera) «necessiti di essere aggiornato … per affrontare su solide basi le nuove sfide della competizione globale». È un passaggio cruciale per comprendere perché si sono fatte le ‘riforme’: questa scoperta dichiarazione va intesa come atto di esplicita e pubblica sottomissione ai mercati internazionali. Con il combinato disposto di riforma costituzionale e legge elettorale si costruisce una dittatura della maggioranza parlamentare, che corrisponderà ad una minoranza dei votanti, e ad una estrema minoranza degli aventi diritto al voto.

La verticalizzazione autoritaria è un tratto ‘culturale’ – vorrei dire antropologico – della politica berlusconiana-renziana: un modello a cui conformare financo la scuola o i musei, che cessano di essere pensati come comunità di pari e vengono affidati, rispettivamente, a presidi autocrati e direttori-manager.

«Padroni a casa propria» è stato infatti il motto che questo governo ha scelto per lanciare lo Sblocca Italia: una legge che prefigura la Repubblica come uscirebbe dalle riforme costituzionali. Una legge che serve a consumare il territorio, a cementificare il paesaggio, ad alienare il patrimonio culturale.

Stiamo – meglio: stanno – costruendo un’Italia rovesciata rispetto ai progetti e alle aspirazioni di chi, settant’anni fa, fondò la Repubblica.

Quando, nel settembre 1944, Piero Calamandrei riapri, come rettore, l’università di Firenze pronunciò un discorso – meraviglioso fin dal titolo: L’Italia ha ancora qualcosa da dire – in cui, tra l’altro, disse:

Quello che più ci ha offeso è stato l’assassinio premeditato delle nostre città, dei nostri villaggi, delle nostre campagne, perfino del nostro paesaggio. Voi lo sapete che in Italia … ogni borgo, ogni svolto di strada, ogni collina ha un volto come quello di una persona viva: non vi è curva di poggi o campanile di pieve che non si affacci nel nostro cuore col nome di un poeta o di un pittore, col ricordo di un evento storico che conta per noi quanto le gioie e i lutti della nostra famiglia. 

In quegli anni, ben più poveri e difficili dei nostri, il profondo rispetto per il territorio e l’amore per la conoscenza portarono Calamandrei e la sua generazione a scrivere una Costituzione che restituì agli italiani una sovranità autentica e concreta. Oggi una classe politica che devasta il territorio e lavora per segregarci in bolle di ignoranza, deforma quella Costituzione per rubarci la sovranità.

Nel progetto della Costituzione il pieno sviluppo della persona umana è la vera ragione sociale della Repubblica: nel progetto della ‘riforma’ Renzi-Boschi le persone diventano un strumento impotente nelle mani di un esecutivo senza controlli, sottoposto ad un mercato assoluto. Di fronte a tutto questo, c’è – ci deve essere – un’Italia che ha ancora qualcosa da dire.  E dire NO a questa svolta autoritaria è il primo passo per costruire un futuro diverso. Noi oggi siamo qua per dire che non staremo in silenzio.

Lo voglio dire con le parole di Carlo Ludovico Ragghianti – storico dell’arte, ma anche presidente del Comitato di liberazione nazionale toscano e capo del governo provvisorio che liberò Firenze –: è per noi un dovere «l’esercizio, in prima persona ad ogni costo e in ogni caso, della responsabilità dell’intervento dello spirito critico». «Non posso ricordare senza commozione come Delio Cantimori – annotava Ragghianti – percepisse con chiarezza di storico delle eresie questo atteggiamento, donandomi nel 1934, al ritorno da un viaggio nella Germania già nazificata la riproduzione del gufo disegnato dal Dürer, con questo commento: Mon seul crime est d’y voir claire la nuit».

Già allora il gufo era un simbolo di resistenza: perché i gufi – diciamolo: noi gufi – vediamo chiaro nella notte.  Anche nell’interminabile notte della Repubblica. Noi vogliamo lavorare, ci impegniamo a lavorare, perché questa notte finisca, e perché la stella della Repubblica sorga presto. Prestissimo: a cominciare da ottobre.

 

Buona festa, buon 2 giugno. Viva la Repubblica, Viva la Costituzione senza revisione!

2 giugno 2016

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