Per cambiare davvero. Elezioni, partiti, partecipazione

12 Lug 2011

Gustavo Zagrebelsky Presidente Onorario Libertà e Giustizia

Firma l’appello – Il presidente onorario di LeG si appella al Parlamento nella soluzione di una semplice legge di due articoli, che cancelli il Porcellum e ripristini il Mattarellum.

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1. Qualche mese fa, Libertà e Giustizia si è espressa sulla questione elettorale con una formula chiara, impegnativa e, secondo me, ancora pienamente valida: mai più alle urne con questa legge, una legge palesemente incostituzionale. Non è nemmeno il caso di ritornare, se non per accenno, sugli argomenti che motivarono quella nostra posizione: l’assurdo premio che trasforma una piccola minoranza (sia pure la più grande delle piccole) degli elettori in una larghissima maggioranza in Parlamento; il “blocco” delle liste dei candidati, prescelti (nominati) dai vertici dei partiti e imposti ai cittadini, ai quali si chiede non di eleggere i propri rappresentanti, ma di dare un voto di fiducia al partito che, quei candidati, ha selezionato secondo logiche sempre più verticistiche e opache. Oggi, possiamo dire che il motivo del nostro “mai più alle urne…” si riassume così: come cittadini elettori, non siamo più disposti a sostenere il ruolo di portatori d’acqua nell’interesse di burocrazie di partiti che usano i posti dei rappresentanti dei cittadini in Parlamento come loro proprietà, per distribuire favori, per ricompensare d’altri favori, per assicurarsi la fedeltà di clienti. Non siamo più disposti a collaborare a tenere in piedi un sistema politico fatto di clientele che si avvolgono e attorcigliano in giri di potere che sempre più spesso – come veniamo a sapere, ormai neppure più sorprendendocene, giorno dopo giorno – operano oltre i confini della legalità.

2. I fatti recenti giustificano ulteriormente, se mai ce ne fosse stato bisogno, quel nostro appello che dunque – mi pare – debba essere ribadito anche ora. Le nostre ragioni non riguardano le convenienze di parte. Anche se qualcuno ritenesse che la legge attuale, che porta il nome di Calderoli, nelle presenti condizioni degli orientamenti popolari, potrebbe servire a sconfiggere il centro-destra e a far vincere il centro-sinistra: anche se così fosse, non dovremmo farci prendere da questo genere di argomenti. Non solo le previsioni sono sempre aleatorie; soprattutto, in materia di democrazia e costituzione dobbiamo ragionare indipendentemente dalle (presunte) convenienze particolari e contingenti. Se così non facessimo, finiremmo per adeguarci a coloro che in tutto questo tempo di degrado della vita pubblica abbiamo criticato per la loro concezione strumentale delle istituzioni, tutti coloro che le hanno umiliate ponendole al servizio degli interessi di alcuni contro quelli degli altri. Libertà e Giustizia ha tutt’altra concezione della res publica. Quando – a iniziare dalla manifestazione del 5 febbraio al Palasharp – abbiamo chiesto le dimissioni del Presidente del Consiglio, non l’abbiamo fatto come atto di opposizione meramente politica o, tantomeno, come manifestazione d’intolleranza personale, ma come atto di difesa delle istituzioni, mai come ora dileggiate, privatizzate, violentate. Il problema di un’associazione di cultura politica come Libertà e Giustizia non è sconfiggere un avversario con i suoi stessi mezzi, ma incominciare a ragionare e operare per ricostruire la vita pubblica del nostro Paese su altre basi.

3. Il nostro “mai più alle urne…” mirava (e mira) a ottenere l’abrogazione dell’attuale legge Calderoli, ma non era finalizzato a introdurne specificamente un altro, come oggetto di una scelta preferenziale tra le diverse opzioni possibili. Eravamo e siamo perfettamente consapevoli che, al momento, le opinioni sono divise, non solo all’esterno di Libertà e Giustizia ma anche al suo interno: la divisione maggiore riguarda la scelta tra la prospettiva maggioritaria e quella proporzionale e, all’interno di queste opzioni, tra le numerose possibilità di articolazione che la fantasia elettoralistica e gli esempi di diritto elettorale comparato offrono con dovizia ai nostri volenterosi riformatori: premi di maggioranza e clausole di sbarramento, dimensioni delle circoscrizioni, recupero dei voti, turno singolo e doppio, apparentamenti, desistenze, ecc., tutte cose che fanno le delizie e le paure dei direttamente interessati. Eravamo e siamo consapevoli del fatto che, se ci s’incammina nella selva delle tante possibilità, il risultato era, è e sarà la somma d’ipotesi contraddittorie che non si sommano nel risultato ma si sottraggono, con l’effetto di paralizzare la riforma e confermare la legge elettorale in vigore: a onta di tutte le dichiarazioni d’intenzione di coloro che sinceramente dicono di volerla cambiare e a beneficio di coloro che lo dicono solo pro forma, mentre in realtà si augurano che nulla cambi, per poter continuare a godere delle delizie ch’essa offre al sistema di potere delle oligarchie di partito.

4. Poiché, peraltro, un sistema elettorale deve pur esserci, non bastando dire di no a quello in vigore, avevamo indicato il ripristino di quello anteriore, che prende il nome dal suo inventore, Sergio Mattarella, come soluzione temporanea che avrebbe potuto colmare decorosamente il vuoto determinato dall’abrogazione della legge Calderoli. Tutto ciò in attesa che, nei tempi necessari e certamente non brevi, venisse a formarsi in Parlamento un consenso sufficientemente vasto su una riforma elettorale semplice, facilmente comprensibile per i cittadini, dettata nell’interesse della democrazia e destinata a valere stabilmente per il futuro. A questo fine, avevamo indicato la strada più semplice: una piccola legge fatta di due proposizioni: è abrogata la legge attuale ed è riportata in vita la legge precedente. La strada più semplice, ma anche la più sicura. La via alternativa – il referendum abrogativo sulla legge vigente – era ed è di incerta percorribilità: non è detto che dall’abrogazione derivi di per sé il ripristino della legge precedente. Potrebbe semplicemente determinarsi il vuoto, ma il vuoto, in materia elettorale, è inconcepibile perché renderebbe impossibile il rinnovo degli organi elettivi e bloccherebbe la democrazia in uno dei suoi aspetti maggiori. Per questo, si temeva e si teme l’eventualità che un simile referendum non superi il vaglio di ammissibilità presso la Corte costituzionale.

5. In Parlamento, in questi mesi, nulla di significativo è accaduto e ora ci si trova, nel tempo stretto che precede le prossime elezioni politiche, in presenza di diverse iniziative referendarie, per le quali è iniziata o sta per iniziare la raccolta delle 500.000 firme necessarie. Ancora una volta, siamo nel pieno della confusione. Tutti mirano all’abrogazione della legge vigente e, in questo, meritano il sostegno di Libertà e Giustizia, coerentemente con la posizione assunta a suo tempo, e (allora) per tempo. Tuttavia, un’iniziativa (Passigli) avrebbe come effetto il ripristino della proporzionale (con lo sbarramento contro la frammentazione al 4%, ma – a quel che è dato capire – col mantenimento delle liste bloccate); un’altra (settori del PD) riproporrebbe la legge Mattarella (una combinazione di logica proporzionale e logica uninominale maggioritaria); un’altra ancora, spuntata nell’ultima ora (costituzionalisti vari), preluderebbe a un sistema esclusivamente maggioritario-uninominale. Nessuna di queste iniziative si presenta accompagnata da una ragionevole probabilità d’essere ammessa dalla Corte costituzionale, o per il carattere accentuatamente manipolativo dell’operazione di taglia-cuci sul testo della legge in vigore, o per l’incerta speranza che all’abrogazione pura e semplice della legge vigente segua l’automatica rinascita della legge precedente. In più – aspetto non considerato finora – le tre iniziative sono così diverse l’una dall’altra da impedire che possano raggrupparsi per somiglianza, finendo per elidersi l’una con l’altra: supponiamo che, nel referendum, due o tutte e tre ottengano la maggioranza. Sarebbe il caos. Quale sarebbe la legge elettorale sulla quale si potrebbe contare? Presumibilmente, questo scenario da incubo costituzionale spingerebbe la Corte costituzionale sulla via dell’inammissibilità e tutto resterebbe fermo, come prima, come adesso. Con la massima soddisfazione di coloro che dicono che tutto deve cambiare perché nulla cambi.

6. Conclusione prima. L’unica strada percorribile – solo che la si voglia percorrere – è ancora quella che Libertà e Giustizia ha suggerito a suo tempo. Basterebbe una piccola legge votata in Parlamento composta di due frasi: la legge Calderoli è abrogata; la legge Mattarella è riportata in vigore. Nessuna prospettiva per il futuro sarebbe pregiudicata e i proporzionalisti come i “maggioritaristi” potrebbero lavorare per costruire in futuro il consenso necessario alla proprie posizioni. A prima vista, in questa congiuntura politica, se esiste una “classe dirigente”, come ama autodefinirsi, non dovrebbe essere del tutto fuori del campo delle sue possibilità costruire le alleanze parlamentari in vista di questa temporanea soluzione. Il rischio che si corre, a mantenere la legge vigente così com’è o a prospettare ora nuove soluzioni legislative farraginose e del tutto prive di possibilità di successo (come quella ventilata in sede PD, di un sistema maggioritario a doppio turno con recupero proporzionale e “diritto di tribuna”: cosa allettante per il pubblico!) è molto elevato. Il “mai più alle urne…” è una parola d’ordine diffusissima. A parte l’astensionismo, che è un problema che riguarda la democrazia come tale, prima ancora che i singoli partiti che ne sono colpiti, dovrebbe suonare come campanello di grande allarme il fatto che non c’è ormai manifestazione pubblica non promossa da partiti in cui si chieda loro esplicitamente di non farsi vedere. La riprova dell’autoreferenzialità del sistema politico, accertata dall’incapacità di toccare un sistema elettorale che pur si riconosce contraddire i presupposti della democrazia rappresentativa, accentuerebbe il distacco dai cittadini e butterebbe al vento, forse irreversibilmente, il desiderio di partecipazione che si è riacceso negli ultimi tempi.

7. Conclusione seconda. Sebbene i referendum in campo siano tutti problematici e tali da dividere le forze tra diverse opzioni elettorali, la raccolta delle firme può essere utilizzata – come dice anche Valerio Onida – per una campagna di mobilitazione delle opinioni e di pressione politica sul Parlamento, affinché se ne sblocchi l’inerzia. I referendum possono anche avere questa funzione di chiamata a raccolta della partecipazione politica e di stimolo, se non di avvertimento, nei confronti di coloro che i cittadini devono rappresentare. Ma manteniamo ferma la nostra speranza in un’estrema prova di responsabilità di coloro che siedono in Parlamento.
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Nato a San Germano Chisone (To) il 1° giugno 1943. Laureato a Torino, Facoltà di Giurisprudenza, nel 1966, in diritto costituzionale, col professor Leopoldo Elia.

  • Professore di diritto costituzionale e diritto costituzionale comparato alla Facoltà di Giurisprudenza e alla Facoltà di Scienze politiche dell’Università di Sassari dal 1969 a 1975.
  • Professore di diritto costituzionale comparato alla Facoltà di scienze politiche dell’Università di Torino dal 1975.
  • Professore di diritto costituzionale alla Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Torino, dal 1980 al 1995.

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