Un ragazzo di 19 anni, Alessio Tucci ammazza a colpi di pietra Martina Carbonaro, una ragazza di 14, cerca di farla franca e poi si giustifica con la solita motivazione: «Mi aveva lasciato, allora l’ho uccisa». Nello stesso giorno apprendiamo che un primario accusato di molestie da sette studentesse e tirocinanti viene assolto tra l’altro perché i palpeggiamenti dei seni avvenivano “con il palmo” e non con le dita, cioè non stringeva. Durante la stesura di questo pezzo un’altra donna è morta ammazzata dal marito.
Due facce, una spaventosa e l’altra grottesca, della violenza di genere alimentata da sessismo e misoginia, dalla volontà di possesso e controllo dei corpi femminili, fino alla loro distruzione, che pervade in modo trasversale la società e a volte contamina anche i tribunali.
Il femminicidio è solo la punta dell’iceberg: sotto il pelo dell’acqua ci sono migliaia di casi di molestie nei luoghi di lavoro o di studio (13,5% delle donne nella fascia 15-70 anni, che lavorano o hanno lavorato, secondo l’Istat), di maltrattamenti in famiglia (23.085 donne che hanno contattato i centri antiviolenza in un anno), di stupri (6587 denunciati nel 2024), di violenza economica e psicologica. Tutti strumenti di oppressione del patriarcato vigente, per usare una parola classificata come “divisiva”, quando a dividere sono se mai le asimmetrie, le disparità e gli stereotipi che ancora oggi incrinano l’immagine patinata dell’Italia governata per la prima volta da una donna, che però sceglie di indicarsi al maschile, “il” presidente, per non sentirsi sminuita dal femminile, in una sorta di abiura di genere.
Il governo Meloni ha recentemente approvato il disegno di legge che istituisce il reato di femminicidio con la pena dell’ergastolo, affrontando il tema in chiave securitaria, secondo lo schema adottato per tutti i dossier che riguardano emergenze sociali. Si punta sull’effetto deterrente e il valore certamente simbolico di un reato manifesto. Come sostiene un gruppo di 80 giuriste che ha firmato un appello contro il ddl, questo però non dà risposte nuove in chiave di prevenzione, ma “a donna morta”. La domanda, retorica, è: questa legge avrebbe fermato la mano di Tucci, di Turetta o di Impagnatiello, questi ultimi due condannati all’ergastolo già con il codice penale attuale? Non servono misure più incisive prima, che erodano la base dell’iceberg?
Se mettiamo in fila i casi più recenti emerge poi un problema gigantesco, la crescita della violenza dei giovani e giovanissimi che interpretano una mascolinità malata e feroce, incapace di relazionarsi con l’autonomia crescente delle ragazze: dopo Giulia Checchettin, le due studentesse 22enni Ilaria Sula e Sara Campanella, prima ancora l’atroce vicenda di Aurora, la 13enne gettata dal settimo piano dal fidanzato 15enne. Il patriarcato non riguarda un mondo vecchio e stantio, ma un mondo nuovo che si intossica su TikTok e Telegram, come diverse inchieste giornalistiche hanno svelato scandagliando le chat degli incell o intercettando i messaggi di odio rivolti post mortem a Sara Campanella per la sua pretesa di scegliersi il partner. La misoginia scorre a fiumi nell’ecosistema digitale, che è quello che nutre l’immaginario dei più giovani, come confermano da anni le rilevazioni della Mappa dell’Intolleranza di Vox Diritti: le donne sono da sempre il principale target dell’hate speech. Il contrasto a questa deriva che trasforma piattaforme in mano al circolo dei tech bro, monopolisti senza scrupoli, in agenzie (dis)educative non può che essere anche culturale, che si chiami educazione affettiva, contronarrazione, addestramento alle relazioni.
Qualcosa devono farlo anche i media, facendosi attori positivi di un cambiamento, come ci chiede la Convenzione di Istanbul.
Nel 2024 l’Osservatorio Step dell’Università La Sapienza ha analizzato 3.671 articoli di quotidiani sulla violenza di genere, riscontrando un miglioramento nella narrazione: è quasi scomparso il raptus come causa dei femminicidi, movente riconosciuto in sede giudiziaria nello zero virgola delle sentenze. Bene. Resta, se pure un po’ in calo, la tendenza ad empatizzare con le ragioni dell’assassino, “himpathy” secondo un efficace neologismo (lei lo aveva lasciato, era depresso, lui l’amava troppo, lavorava troppo, lei lo tradiva). Anche se ora la vittimizzazione secondaria predilige altre formule: perché lei non ha denunciato prima? Perché si è messa con quel tipo? Perché è andata all’ultimo incontro? Anche la 14enne Martina Carbonaro ha le sue colpe: fidanzata a 12 anni, troppo presto, chattava con un altro, lui non ci ha visto più. La sovrabbondanza poi non aiuta. I media italiani dedicano uno spazio sproporzionato ai fatti di cronaca nera, soprattutto quando raccontano di corpi di donne ammazzate. Notizie e corpi che vengono vivisezionati nei vari format di infotainment televisivo, la cosiddetta tv del dolore, con ore e ore di trasmissione emotiva, interviste a parenti, amici, foto rubate dai social, opinionisti che nulla sanno del fatto, persino sondaggi sul colpevole (lo abbiamo visto sul caso Garlasco) perché l’omicidio di una donna in tutti i suoi dettagli macabri “fa più audience” di un morto sul lavoro o di una barca di migranti che affonda.
Tutto il contrario di quello che prescrive il codice deontologico dei giornalisti: continenza e essenzialità del racconto, rispetto della privacy e della dignità delle persone, non spettacolarizzazione dei fatti di cronaca.