Questo articolo di Roberta De Monticelli, filosofa e membro del Consiglio di Presidenza di Libertà e Giustizia, è stato pubblicato su Il Manifesto del 22 gennaio 2024
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“Lo stato di Israele sa fin troppo bene perché la Convenzione sul genocidio, che è stata invocata in questo procedimento, fu adottata”. Si apre così l’arringa di Tal Becker, il primo avvocato della squadra di difesa israeliana alla Corte Internazionale di Giustizia dell’Aja. La “memoria collettiva di Israele” è evocata immediatamente dopo, insieme con il richiamo a Raphael Lemkin, il giurista ebreo polacco che coniò il termine. Non gli bastava – aggiungiamo noi – il termine “sterminio” usato a Norimberga, e neppure “crimine contro l’umanità”, coniato da Hersch Lauterpach, un altro giurista sopravvissuto alla Shoah. Uccidere persone perché appartenenti a un certo gruppo e con l’obiettivo di sradicarlo è peggio che ucciderle senza questa specifica intenzione. Che è poi la parte dell’accusa più difficile da provare, nonostante le oltre 60 citazioni e le 9 pagine di riferimenti ad alti funzionari israeliani, non sanzionati dal loro governo. E’ di questo “elemento soggettivo” che vogliamo occuparci: delle sue implicazioni psicologiche e morali ma anche filosofiche, sia dal punto di vista degli accusatori che degli accusati.
Sgombriamo anzitutto il terreno dagli equivoci. La Corte non è chiamata nell’immediato a un verdetto di innocenza o colpevolezza: ma solo a determinarsi sulla possibilità che un genocidio sia in atto, e solo in questo caso ad accogliere (eventualmente) la richiesta di misure precauzionali come il cessate il fuoco. Sarebbe ridicolo che quel verdetto pretendesse di anticiparlo chi scrive. La questione è un’altra. Qual è il senso dell’accusa?
Ancora. La Corte ha giurisdizione sulle controversie fra stati, ma solo se questi l’accettano, o una tantum o nelle clausole dei loro trattati. Israele l’ha accettata praticamente solo per questo trattato così fondante per la sua legittimità: la Convenzione sul genocidio. Per questo ha dovuto prima sorgere una controversia fra il Sudafrica e Israele, perché i Sudafricani potessero presentare alla Corte la loro accusa di genocidio, prima comunicata a Israele e respinta. A questo punto l’Art. 9 della Convenzione “obbligava” Israele a difendersi in Corte.
E ora torniamo alle arringhe difensive. L’argomento di Becker torna continuamente: che sia accusato di genocidio proprio Israele, fondato sulla “memoria collettiva” del male “unico”, “eccezionale”, “assoluto” subito dagli ebrei, per il quale fu inventata questa fattispecie di reato, è inaudito. Una sorta di contraddizione “genetica” (Giacomo Costa, Affaritaliani.it, 16/1). “L’accusa è assurda perché mossa nei confronti di uno stato nato, lo ricordo, dalla Shoah”. Questa stessa tesi, espressa il 9 gennaio dall’avvocato internazionalista Giorgio Sacerdoti, la trovate come argomento cardine di tutte le arringhe difensive, insieme all’altra complementare: accusare proprio Israele di genocidio svuota di senso il termine, lo banalizza. Ecco: ma perché? Come comprendere più in profondità il senso di questo che sarebbe di per sé evidentemente un non sequitur?
Perché ci sia intento genocida, la vittima designata deve essere presente, e in modo quasi ossessivo, alla mente del suo carnefice. Ora, onestamente, chi potrebbe dire che i palestinesi siano stati presenti alla mente della maggioranza degli ebrei israeliani in una società che, come quella israeliana, era letteralmente costruita come un sistema di invisibilità – architettonica, logistica, segnaletica, linguistica e culturale – nei confronti delle popolazioni dei territori occupati, ridotti allo status generico di “stranieri” – o al più soltanto “terroristi” – da cui difendersi, invece che sfollati superstiti di una popolazione residente da una dozzina di secoli almeno in Palestina? E’ questo “elefante nella stanza” che nessuna delle crisi passate ha reso tanto visibile quanto il tremendo eccidio del 7 ottobre. Si parva licet, conosciamo questo meccanismo. Distolgo istintivamente lo sguardo da qualcosa, senza volerlo sapere. Ma se qualcuno mi costringe a guardare, la mia reazione può essere feroce. In fondo, l’othering, la disumanizzazione annichilante, era già nel sogno dei padri fondatori: una terra “senza popolo” per un popolo senza terra.
Ecco perché l’argomento principale dell’accusa è stato la “contestualizzazione” dello sterminio di Gaza: certo in rapporto all’eccidio criminale del 7 ottobre, ma anche in rapporto all’intera storia della pulizia etnica della Palestina storica, prima e dopo il 1967 e il regime di occupazione dei territori destinati dall’ONU alla Palestina. Come dire: ignorare la vittima che stermini, mentre la stermini, non solo non cancella l’intento genocida, ma semmai l’aggrava, come se tu avessi anticipato l’annientamento in forma di negazione del vero: “non esistono”.
Nurit Peled Elhanan, già docente alla Jerusalem University, illumina questo buio nel suo ultimo libro (Holocaust Education and the Semiotics of Othering, 2023), riconducendo la rimozione (l’elefante ignorato) proprio a una politica della memoria: l’identità israeliana si costruisce nell’identificazione con le vittime della Shoah fino al punto di iscriversi nel concetto di genocidio. E dunque che il genocidio sia perpetrato invece che subito, è inconcepibile. Ma questa è una memoria centripeta: dice “mai più questo deve accadere a noi”. E non invece “a nessuno”. Solo quest’ultima sarebbe una memoria “universale”. L’avevo chiamata kantianamente “memoria del diritto” (17 gennaio). Nurit la chiama “memoria centrifuga”.
Questo vorrei rispondere a Roberto Della Seta, che ieri ha avanzato riserve sulla portata etica dell’accusa sudafricana (oltre che sulla sua correttezza giuridica e opportunità politica). In etica – e relativamente alla mente umana – le questioni sono più complesse di come paiono. E’ bene ricordarlo, alla viglia della Giornata della Memoria.