Il piano di Renzi è lineare: privo di investitura elettorale, deve cancellare questo vizio d’origine trasformando le elezioni europee in un referendum sul suo esecutivo. Per uno scherzo del destino, sta ricalcando la strategia del suo ex-antagonista Massimo D’Alema, il quale subentrato a Prodi tentò la medesima carta nel 2000: nel suo caso però finì male, e anziché legittimarlo la batosta delle amministrative lo costrinse alle dimissioni. Certo, Renzi ha qualche carta in più da giocare. Prima di tutto ha messo mano al portafoglio, e gli 80 euro al mese che da maggio dovrebbero entrare nella busta paga di 10 milioni di lavoratori sono un bell’argomento da spendere nella prossima campagna elettorale. Ma Renzi ha deciso di giocarsi la faccia soprattutto su due riforme che toccano da vicino la sensibilità di un’opinione pubblica esasperata da anni di annunci inconcludenti: abolizione delle province e del bicameralismo perfetto.
Se ora enfatizza twittando le 3000 indennità politiche cancellate grazie al taglio degli enti locali, c’è da scommettere che con lo stesso afflato sottolineerà il risparmio derivante dalle 315 poltrone senatoriali cancellate. Colpire la casta, vera o presunta, di questi tempi porta parecchi voti. Ma comporta almeno due rischi, il primo per la stabilità dell’esecutivo, il secondo per gli stessi equilibri istituzionali. Ora che comincia a fare sul serio, Renzi deve mettere in conto l’opposizione trasversale di un ceto politico indebolito, spaventato, ma proprio per questo arroccato a difesa non tanto delle proprie prerogative (o privilegi), ma della propria stessa sopravvivenza. Ogni voto segreto può nascondere un’imboscata, specie se il malcontento dei peones si somma al calcolo di chi soffre la prima leadership forte del centrosinistra e ne paventa i successi perché alla prossima tornata elettorale sarà sull’altro fronte, come i “separati in casa” di Alfano, o magari per la speranza di rivalsa interna degli sconfitti del Pd.
C’è poi un’altra preoccupazione, di carattere più generale. Quello di ridisegnare l’architettura costituzionale è un progetto ambizioso, che va ben oltre le misure di “ordinaria manutenzione” della nostra Carta sulle quali si potrebbe ottenere un consenso quasi-unanime: drastica riduzione dei parlamentari, razionalizzazione delle competenze statali e regionali, semplificazione del processo legislativo e rafforzamento dell’esecutivo. E’ una ricetta più elaborata, e probabilmente indigesta, quella cucinata dal “Masterchef” Renzi. Che quindi inevitabilmente sconterà un duplice peccato d’origine: la probabile mancanza di un ampio consenso e il legame con l’Italicum, il disegno di legge elettorale che si applicherà solo alla futura Camera, dando in qualche modo per acquisita una legittimazione indiretta dei futuri senatori. Ma chi mira a una riforma costituzionale dovrebbe guardare a lungo termine, senza i condizionamenti legati al destino di un provvedimento – come la legge elettorale – dove peseranno soprattutto logiche contingenti, aspettative su tempi di applicazione (ed esiti probabili) dei meccanismi di voto. Insomma, con queste premesse il passaggio parlamentare rischia di trasformarsi in una palude, nella quale forse converrà a Renzi non essere volpe né leone, ma più simile a un alligatore…