La disperazione è la vera categoria politica del nostro tempo

29 Ago 2022

Sono a una tristissima sagra paesana con mio figlio. Mentre lui trae un po’ di felicità dal leccalecca, io cerco consolazione nei discorsi delle persone che mi stanno accanto. Ma non va benissimo. Fremono tutti per votare Meloni: “almeno qualcosa cambierà”. Questo l’unico argomento politico che li mette d’accordo. Sento l’esigenza di non sottovalutarla, questa evocazione del cambiamento. Certo, colei che stanno identificando col cambiamento si presenta a carte scoperte e non si preoccupa affatto di nascondere il proprio bluff.

La disperazione del cambiamento

Una vertiginosa fuga all’indietro: nei manifesti che evocano ancora le scelte di campo, nel programma che sembra un copia e incolla senza senso di cose di trent’anni fa, nelle ricette economiche che non temono di risultare tanto inverosimili quanto classiste. E che alla fine verranno votate da coloro che ne pagheranno le conseguenze.

Mi domando come sia possibile che tutto questo – così fuori tempo, fuori fuoco, classista, irrealistico e antidemocratico – sia oggi visto come l’unica speranza di cambiamento. Una parte di risposta la conosco. Perché la campagna elettorale della destra la conduce Letta. Quell’istanza di cambiamento è oggi disperata. I pensionati accanto a me scelgono il cambiamento in negativo: non per ciò che porterà, ma per ciò che non sarà. È la disperazione la vera categoria politica del nostro tempo. Sarà per questo che quando Letta si pavoneggia per la sua serietà, non capisce che è questa sua serietà che fa vincere la destra. Quelle persone lì si meriterebbero uno straccio di sogno, un cambiamento positivo e reale, non di essere sempre richiamati al senso di responsabilità. Nessuno più rompe le righe. E se non lo fa il centro sinistra, non lo farà di certo la destra, che le vuole serrare le righe di un’Italia così ineguale. Per i disperati basta anche questo, piuttosto che stare dove stanno adesso. Anche il peggio è un cambiamento.

Ma questa è la parte che riguarda noi, i nostri limiti che hanno montato l’onda scura che sta arrivando. Ci sono altre domande, che vorrei rivolgere a Meloni e che vorrei avessero risposta.

Giorgia Meloni e il fascismo

Per esempio: crede davvero che possa bastare la sua frettolosa presa di distanza dal fascismo? Forse abbiamo sbagliato anche noi antifascisti, in questi anni. Non abbiamo fatto abbastanza per far capire che non siamo attaccati al passato, ma teniamo al presente. E allora diciamolo chiaro alla Meloni. Non è Mussolini ciò che temiamo. È Orban, è Putin. È l’attacco al bilanciamento dei poteri, l’economia oligarchizzata, l’intolleranza nei confronti delle minoranze, la censura della libertà di opinione, il primato sbilanciato del potere esecutivo, il disprezzo fatto legge dei corpi e della dignità dei migranti e delle donne. Il fascismo non è solo un nome o un’epoca storica. È l’effetto della progressiva desostanzializzazione della democrazia. Siamo contro ogni fascismo. Tenaci difensori della fragile democrazia. Non siamo noi a rendere incredibile la presa di distanza di Mussolini, ma è il contemporaneo flirt con Orban. Non si tratta affatto di pregiudizio, ma di dati oggettivi.

Il presidenzialismo è attuale?

Ancora: perché la destra tiene al presidenzialismo così tanto da non farsi scrupolo di parlarne come di cosa già fatta, spiegando a Mattarella che dovrà fare ciò che evidentemente non sarà tenuto a fare? Immagino già la risposta: il presidenzialismo non è che un modo come un altro per organizzare un regime democratico che è in crisi e non dà sufficienti risposte alle questioni sociali che da anni si aggravano. Anzi, so già che molti – a partire da Renzi e Calenda – chiederebbero addirittura conto a noi, con un filo di disprezzo: perché temerlo così tanto il presidenzialismo, arrivando a intravvedere addirittura rischi per la democrazia?

Io risponderei in due modi. Innanzitutto che c’è stato un tempo in cui la crisi di efficacia della nostra democrazia sembrava causata da un sistema basato sul primato dei partiti. Tutto il passaggio dalla prima alla seconda repubblica è fondato su questa idea: la necessità di sostituire la democrazia dei partiti con quella dei leader. Noi – non tutti, ma ancora molti – non abbiamo dimenticato da dove veniamo: tra questa crisi e quell’altra (quella dei primi anni novanta) abbiamo avuto di mezzo il berlusconismo, la nascita dei partiti personali, il narcisismo patologico di classi dirigenti che si sono dimenticate la politica per amore di se stesse. Il presidenzialismo non risolve questa crisi, la accentua. Amplifica le sue cause.

Quanto al timore che il presidenzialismo porti con sé una torsione antidemocratica, credo che una cosa si possa dire con chiarezza: non è il presidenzialismo il problema, siamo noi. Come scrive in tanti suoi magistrali interventi Gustavo Zagrebelsky, ogni sistema di governo è un vestito che va cucito su misura. È il presidenzialismo che aderisce molto poco (o forse troppo) alla storia degli italiani, sempre indulgenti con l’uomo forte, che da quasi trent’anni passano da un unto del signore a un altro. E poi, quando i danni sono ormai irreversibili, sono pronti a scaricare coloro di cui si innamorano.

A chi giova l’abito del presidenzialismo?

La verità è che dietro questo incantamento per il presidenzialismo c’è una nostalgia fortemente reazionaria e antidemocratica. Il suo obiettivo è di neutralizzare gli effetti dell’equilibrio delle democrazie parlamentari. Quando esse si stavano imponendo, la discussione verteva esattamente su questo. La democrazia parlamentare sostituiva la necessità della decisione con quella della discussione. Che scandalo per gli assolutisti: che il compito primario non fosse più di decidere, ma di discutere prima di decidere. Che perdita di tempo il parlamento.

E allora a chi si attaglia alla perfezione l’abito del presidenzialismo, che non è misurato sugli italiani? Temo si attagli bene alla classe dirigente che va di moda a destra e che Meloni vuole rappresentare. A Salvini, a Berlusconi, a Orban, a Putin. A tutti quelli che vogliono decidere senza più dover dar conto di ciò che decidono. Che vogliono ridurre la democrazia a quello che era il principio dell’assolutismo: non conta più cosa si decide, ma che ci sia qualcuno a decidere.

Eccolo, il cambiamento che la gente, resa cieca dalla disperazione, finisce con l’invocare: qualcuno che decida, basta che qualcosa cambi, qualsiasi cosa essa sia. La regressione che ci minaccia è ben più profonda degli ultimi trent’anni. È la possibilità che anche qui le democrazie illiberali riprendano piede e mettano da parte secoli di lenta costruzione delle democrazie parlamentari.

Temo che l’unica forma di consolazione che mi rimanga sia far piangere mio figlio, strappandogli il leccalecca dalle mani. Oppure portare pazienza. Forse Meloni un merito alla fine ce l’avrà: ci costringerà a metterci di nuovo e sul serio insieme. E quello che non riescono più a fare i partiti, ricominceremo, intanto, a farlo noi. Scommettere che la democrazia sia convincente. Che la democrazia non è solo una cosa più seria, è soprattutto una cosa più bella rispetto all’inganno che ci sta proponendo.

(Non svelo il finale: avrà prevalso la pazienza o sarò stato un pessimo padre?).

* L’autore dell’articolo è il presidente di Libertà e Giustizia.

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