25 aprile, l’inizio di una vita nuova

24 Apr 2017

Gustavo Zagrebelsky Presidente Onorario Libertà e Giustizia

Ancora una volta siamo qui a celebrare il giorno della fine di un ventennio di dittatura e l’inizio di una vita nuova illuminata dalla libertà e dalla giustizia. Il ricordo non si distinguerebbe da un capitolo d’un libro di storia se non ci impegnassimo nella riflessione sul tempo nostro, paragonato a quello di allora, alle difficoltà, ai progetti, alle speranze e anche alle illusioni di coloro ai quali dobbiamo ciò che compendiamo nella parola Liberazione. A che punto siamo?

Dopo settant’anni, le celebrazioni della Liberazione si rivolgono ormai a chi non ha vissuto i fatti o, almeno, i tempi della Resistenza. Quella generazione è quasi completamente scomparsa. Due mesi fa, a 93 anni ci ha lasciato don Aldo Benevelli, un ultimo testimone di quel tempo terribile e glorioso. Molti dei presenti l’hanno conosciuto. È giusto ricordarlo oggi. Sarebbe stato con noi in qualche luogo della provincia di Cuneo dove in queste ore si svolgono ricordanze come quella nostra odierna. Per le nuove generazioni e, soprattutto, per quella di chi oggi è ragazzo, non si tratta di rivivere e rievocare vicende partecipate personalmente e, per lo più, nemmeno vissute indirettamente attraverso il ricordo di padri e madri. Chi può dire, allora, se non le ha vissute, quali furono le alternative di fronte alle quali si trovarono gli uomini e le donne di allora: terrori, incubi, pericoli, dubbi che gravavano sulle coscienze, ma anche progetti, ideali, speranze che mossero i ribelli al fascismo e al nazismo?

Tempo di scelte molto spesso tragiche alle quali, per nostra fortuna, da allora non siamo più stati chiamati. Dobbiamo però anche oggi prendere posizione con la consapevolezza di ciò che allora divise il nostro Paese in una guerra che fu anche una guerra tra Italiani, una guerra civile, tra tutte le guerre la più crudele. E dobbiamo farlo con umiltà, perché abbiamo avuto la fortuna di non essere stati messi alla prova e non possiamo dire con certezza da quale parte ci saremmo collocati.

Quale fosse la posta in gioco, possiamo comprendere nel modo più vivo attraverso le Lettere dei condannati a morte della Resistenza: confessioni scritte nella totale sincerità di chi non si aspetta più nulla per sé, dà testimonianza del significato della scelta che lo sta portando a morte e non sa neppure se le sue parole sarebbero uscite dalla cella di detenzione per arrivare alle mogli, ai figli, ai compagni e alle compagne, agli amici. Lettere in cui la coscienza è lacerata tra due fedeltà: l’una verso un ideale politico più o meno definito; l’altra verso i familiari e le persone care, alle quali si chiede ripetutamente perdono per avere anteposto all’amore verso di loro, l’amor di Patria (parola allora ricorrente).

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Scelte impervie, secondo un certo modo di pensare estranee allo spirito comune di noi italiani. La Resistenza, s’è detto, sarebbe estranea allo spirito profondo del nostro popolo, spirito tutt’altro che “resistenziale”, ma piuttosto “accomodante”. Per quello che si potrebbe chiamare “revisionismo etico”, il carattere autentico della nostra identità nazionale sarebbe rappresentato da quella parte numerosa del popolo italiano che stette a guardare, aperta a qualunque compromesso pur di assicurarsi una vita tranquilla, al riparo dai pericoli.
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Così ragionando, si finisce per considerare il tempo del fascismo e dell’alleanza con la Germania nazista come una semplice parentesi nella nostra storia, e così pure l’antifascismo, che sarebbe stata una reazione senza autentiche e profonde radici nel nostro costume: l’uno e l’altra vicende da racchiudere in una memoria che dimentichi l’asprezza del conflitto e valorizzi chi non stava né dall’una né dall’altra parte, la zona grigia accomodante. Il popolo italiano rifugge dagli estremismi, dice questa forma di memoria che si vorrebbe condivisa: nel peccato di estremismo sarebbero caduti tanto i fascisti quanto gli antifascisti.
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Questa interpretazione dei fatti del biennio 1943/1945 porta a una conclusione: avevano entrambi torto, e dunque si equivalevano. Le crudeltà, le vendette personali, gli abusi che la guerra civile – come tutte le guerre civili – portò con sé, di cui gli storici cercano di costruire un memoriale di umana comprensione, sarebbero l’argomento a favore degli “attendisti”, della “zona grigia” di coloro che non si schierarono né con gli uni, né con gli altri. Costoro sarebbero stati i veri interpreti dell’animo profondo degli italiani, un popolo sempre e comunque di moderati. Dimenticare la Resistenza, dunque, e con essa, il fascismo: legarli insieme e relegarli in una nota a piè di pagina nei libri di storia.
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Ma, è questo ciò su cui pensiamo che una storia comune possa essere costruita? Il conformismo di chi sta a guardare quando si combatte per beni supremi, come la libertà, l’indipendenza, la dignità degli esseri umani, la pace? Nell’Antichità, quando un conflitto di questo genere si verificava e nessun’altra soluzione sembrava possibile, l’impegno personale e diretto – o di qua o di là – si considerava un obbligo civile. Una legge di Solone puniva gli inerti. Si voleva evitare che si stesse alla finestra, come fanno gli opportunisti, per poi approfittare del sacrificio di chi si è messo in gioco e ha rischiato la vita per un ideale. Di tutte le posizioni, la meno degna è proprio questa: assumere l’opportunismo come virtù; credere di superare il conflitto che settant’anni fa ha diviso l’Italia in nome d’una debolezza. Facciamo attenzione a che l’appello giusto e ripetuto, soprattutto in questi giorni, alla “memoria condivisa” e alla riconciliazione, non finisca per esaltare l’opportunismo come virtù politica.
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In ogni caso, l’equidistanza non risponde alla domanda cruciale: che cosa sarebbe successo se avessero vinto i fascisti e i loro alleati nazisti? Guardiamo ai fatti e ricordiamo i programmi. La Germania vincitrice avrebbe istituito il “Reich millenario”. Avrebbe distrutto la civiltà liberale e cristiana, avrebbe instaurato il dominio della “razza ariana”, sterminando i “non integrabili”, gli ebrei, i rom, gli omosessuali, gli oppositori politici; avrebbe sottomesso le “razze inferiori”, gli slavi e anche i popoli latini dal sangue impuro per i tanti mescolamenti o “contaminazioni” prodottesi nei secoli. Al di là del nostro piuttosto ridicolo orgoglio nazionalistico e della retorica da eredi della “romanità”, saremmo stati costretti a servire l’impero ariano. Oggi si dice che all’Italia sarebbe stato riconosciuto un suo degno posto nel nuovo ordine mondiale, cioè la mano libera nella colonizzazione di alcune parti del continente africano. Che bella prospettiva: colonialismo su larga scala! Saremmo stati dei colonizzatori a nostra volta colonizzati. Comunque, la guida del nuovo mondo doveva essere la Germania, con la sua ideologia, la Wehrmacht, le SS, la Gestapo, i campi di concentramento e di sterminio. L’Italia e l’Europa tutta sarebbero state sotto il giogo d’un regime di pretesi super-uomini che avevano dato prova di sé scatenando guerre d’espansione e pulizie etniche, provocando milioni di morti, diffondendo il terrore nella vita quotidiana, promuovendo mostruosi esperimenti e campagne eugenetiche. Non sono esagerazioni: questo era l’alleato, questi i super-uomini che i nostri fascisti goffamente volevano imitare, questa l’ideologia totalitaria razziale che già fin all’inizio di quella tragica avventura era stata annunciata a chiare lettere, a chi avesse voluto intendere, nel Mein Kampf di Adolf Hitler .
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Allora, alla domanda: che cosa sarebbe successo se avessero vinto fascisti e nazisti, non possiamo dare una risposta equidistante. Una parte stava con queste barbarie, l’altra contro. Occorre ricordare e rendere onore e gratitudine a chi ha scelto la parte secondo umanità, giustizia e libertà, la parte che ci consente di essere qui a discutere liberamente del nostro passato e del nostro futuro.
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Altra cosa è riconoscere che chi stava dalla parte sbagliata non era necessariamente un criminale, un fanatico. L’indottrinamento al quale il fascismo aveva sottoposto gli Italiani faceva la sua parte; l’illusione di stare con il governo legittimo, anche. Il passaggio con i partigiani e con la resistenza, cioè con quelli che i proclami della Wehrmacht chiamavano banditi, “Banditen”, si scontrava in non pochi con un senso del dovere nei confronti d’un concetto di Patria, sia pure di una Patria corrotta. Non si trattava soltanto d’adesione a ideologie funeste o di timore per le ritorsioni e per la possibile deportazione nei campi di lavoro in Germania. Per questo, sulle storie personali di quel tempo terribile, ancora una volta è giusto sospendere il giudizio .
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C’è poi una seconda domanda. E se la guerra si fosse conclusa esclusivamente con la conquista da parte degli eserciti degli Alleati? Se le autorità militari anglo-americane non avessero avuto a che fare con il Corpo Volontari della Libertà, con i Comitati di Liberazione Nazionale e con i rinati partiti politici che ai Comitati avevano dato vita?
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La sconfitta del III Reich e della Repubblica di Salò non fu certo determinata soltanto, e nemmeno prevalentemente, dalle forze della resistenza interna. Ma, se questa non ci fosse stata, la parola adatta a descrivere la situazione del nostro Paese sarebbe “debellatio”, annichilimento. Gli Alleati trovarono un popolo dove si lottava per la propria identità, oltre che per il proprio onore e il proprio futuro. Molto diversa l’Italia dalla Germania, per quanto entrambe sconfitte. Gli storici discutono delle dimensioni della Resistenza, tra resistenza attiva con le armi in pugno, resistenza passiva, aiuto e sostegno diffuso, fiancheggiatori più o meno esposti. Tanto meno numerosi, diciamo, tanto più merito. In ogni caso, quella Resistenza che in Italia di fu e in Germania non ci fu, permise al nostro Paese di salvaguardare la propria autonomia, di sedere nel contesto internazionale tra le nazioni libere e di ricominciare a prendere nelle nostre mani l’opera della ricostruzione. Il primo passo fu l’Assemblea Costituente, il primo parlamento democratico del nostro Paese, eletto a suffragio universale, uomini e donne; il primo frutto fu la Costituzione.
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Si può dire che la nostra sia una costituzione antifascista? Che oggi abbia un senso definirla così, quando il fascismo storico è stato sconfitto e, almeno per ora, un altro non sembra riproporsi nelle forme di allora? Consideriamo che esiste un fascismo perenne, di cui quello storico è stato solo una manifestazione. Facciamo questo esperimento. Amor di Patria era espressione sulla bocca dei fascisti come degli antifascisti. Ma, domandiamoci che cosa era per gli uni e per gli altri?
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Per i fascisti, si traduceva in “italianità” e nazionalismo, in culto della forza e della guerra, nella visione gerarchica della società, in amore per la “bella morte”, in retorica dell’onore virile. Tutto questo stava nel loro amor di Patria. Per gli antifascisti, era esattamente l’opposto: al nazionalismo si contrapponeva la fratellanza tra i popoli; all’esaltazione della forza, il dovere dello studio e l’impegno nel lavoro; al culto della guerra, l’aspirazione alla pace; alla gerarchia, l’uguaglianza; alla seduzione della bella morte, l’aspirazione alla vita; all’onore virile, la dignità di tutti.
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Queste cose troviamo trascritto nella Costituzione, se la sappiamo leggere in controluce rispetto a ciò ch’essa ha voluto negare e a ciò che, al contrario, ha voluto affermare. In questo senso, possiamo, anzi dobbiamo tranquillamente dire che la nostra è una costituzione scritta per contrastare il fascismo perenne. Quando ci si chiede in che cosa consiste lo spirito della Liberazione, lo vediamo nelle immagini di popolo, uomini e donne, giovani e anziani, che nella giornata del 25 aprile scesero nelle strade e nelle piazze a festeggiare i partigiani che sfilavano, a manifestare festanti e felici la volontà di riprendere il futuro nelle proprie mani. Le immagini che ci hanno tramandato quel momento colpiscono ancora. Anzi colpiscono particolarmente in un momento com’è il nostro, in cui tanto bisogno avremmo di attingere a quelle energie, a quella fiducia, a quel bisogno di libertà, di giustizia e di pace. La nostra Costituzione – ripeto: se la sappiamo leggere – è come un serbatoio che racchiude quelle energie, alle quali possiamo attingere nei momenti di difficoltà che sono quelli nostri.
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Non è dall’alto dei poteri costituiti, da soli, che possiamo pensare di ricevere le energie di cui abbiamo bisogno per non farci travolgere dalle difficoltà, dalle emergenze e dalle crisi che attraversiamo, per risollevarci come la generazione di allora seppe fare. La speranza di ricostruire i legami di giustizia e di solidarietà, così evidentemente insidiati da modi di vivere esasperati, aggressivi e, insieme, sfiduciati sta nell’impegno di cui tanti, giovani e anziani, danno prova, volontariamente e disinteressatamente nei tanti luoghi della violenza, della solitudine e del disagio sociale che la crisi ha moltiplicato in questi nostri anni. Sono i germogli che nascono nella società, spesso tra i più umili, dove si trova talora una consapevolezza di giustizia che manca altrove.
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Ho ricordato all’inizio le Lettere dei condannati a morte della Resistenza. Le voglio riprendere alla fine, citandone due.
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Pietro Benedetti, un artigiano fucilato il 29 aprile 1944, scrive ai figli: “Amatevi l’un l’altro, miei cari, amate vostra madre e fate in modo che il vostro amore compensi la mia mancanza. Amate lo studio e il lavoro. Una vita onesta è il migliore ornamento di chi vive. Dell’amore per l’umanità fate una religione e siate sempre solleciti verso il bisogno e le sofferenze dei vostri simili. Amate la libertà e ricordate che questo bene deve essere pagato con continui sacrifici e qualche volta con la vita. Una vita in schiavitù è meglio non viverla. Amate la madrepatria, ma ricordate che la patria vera è il mondo e, ovunque vi sono vostri simili, quelli sono i vostri fratelli”.
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Più di tutte commoventi, sono le parole di Paola Garelli, pettinatrice di Mondovì, fucilata il 1° novembre 1944, che scrive alla sua piccola bimba: “la tua mamma se ne va pensandoti e amandoti, mia creatura adorata, sii buona, studia e ubbidisci sempre gli zii che t’allevano, amali come fossi io. Io sono tranquilla. Tu devi dire a tutti i nostri cari parenti, nonna e gli altri, che mi perdonino il dolore che do loro. Non devi piangere né vergognarti per me. Quando sarai grande capirai meglio. Ti chiedo una cosa sola: studia, io ti proteggerò dal cielo […] la tua infelice mamma”.
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Che distanza! Che commozione! Forse anche, che sferzata avvertiamo! Soprattutto: “quando sarai grande capirai”. Ecco il compito: aiutare sempre, ancora, a capire e così aiutarci a diventare un popolo adulto di fronte alle difficoltà che non possono mai mancare.
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(*) Pubblichiamo ampi stralci del discorso di Gustavo Zagrebelsky, scritto in occasione della cerimonia del 25 aprile 2017, che si terrà domani a Savigliano, in provincia di Cuneo.

Nato a San Germano Chisone (To) il 1° giugno 1943. Laureato a Torino, Facoltà di Giurisprudenza, nel 1966, in diritto costituzionale, col professor Leopoldo Elia.

  • Professore di diritto costituzionale e diritto costituzionale comparato alla Facoltà di Giurisprudenza e alla Facoltà di Scienze politiche dell’Università di Sassari dal 1969 a 1975.
  • Professore di diritto costituzionale comparato alla Facoltà di scienze politiche dell’Università di Torino dal 1975.
  • Professore di diritto costituzionale alla Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Torino, dal 1980 al 1995.

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