Ancora una volta siamo qui a celebrare il giorno della fine di un ventennio di dittatura e l’inizio di una vita nuova illuminata dalla libertà e dalla giustizia. Il ricordo non si distinguerebbe da un capitolo d’un libro di storia se non ci impegnassimo nella riflessione sul tempo nostro, paragonato a quello di allora, alle difficoltà, ai progetti, alle speranze e anche alle illusioni di coloro ai quali dobbiamo ciò che compendiamo nella parola Liberazione. A che punto siamo?
Dopo settant’anni, le celebrazioni della Liberazione si rivolgono ormai a chi non ha vissuto i fatti o, almeno, i tempi della Resistenza. Quella generazione è quasi completamente scomparsa. Due mesi fa, a 93 anni ci ha lasciato don Aldo Benevelli, un ultimo testimone di quel tempo terribile e glorioso. Molti dei presenti l’hanno conosciuto. È giusto ricordarlo oggi. Sarebbe stato con noi in qualche luogo della provincia di Cuneo dove in queste ore si svolgono ricordanze come quella nostra odierna. Per le nuove generazioni e, soprattutto, per quella di chi oggi è ragazzo, non si tratta di rivivere e rievocare vicende partecipate personalmente e, per lo più, nemmeno vissute indirettamente attraverso il ricordo di padri e madri. Chi può dire, allora, se non le ha vissute, quali furono le alternative di fronte alle quali si trovarono gli uomini e le donne di allora: terrori, incubi, pericoli, dubbi che gravavano sulle coscienze, ma anche progetti, ideali, speranze che mossero i ribelli al fascismo e al nazismo?
Tempo di scelte molto spesso tragiche alle quali, per nostra fortuna, da allora non siamo più stati chiamati. Dobbiamo però anche oggi prendere posizione con la consapevolezza di ciò che allora divise il nostro Paese in una guerra che fu anche una guerra tra Italiani, una guerra civile, tra tutte le guerre la più crudele. E dobbiamo farlo con umiltà, perché abbiamo avuto la fortuna di non essere stati messi alla prova e non possiamo dire con certezza da quale parte ci saremmo collocati.
Quale fosse la posta in gioco, possiamo comprendere nel modo più vivo attraverso le Lettere dei condannati a morte della Resistenza: confessioni scritte nella totale sincerità di chi non si aspetta più nulla per sé, dà testimonianza del significato della scelta che lo sta portando a morte e non sa neppure se le sue parole sarebbero uscite dalla cella di detenzione per arrivare alle mogli, ai figli, ai compagni e alle compagne, agli amici. Lettere in cui la coscienza è lacerata tra due fedeltà: l’una verso un ideale politico più o meno definito; l’altra verso i familiari e le persone care, alle quali si chiede ripetutamente perdono per avere anteposto all’amore verso di loro, l’amor di Patria (parola allora ricorrente).
(*) Pubblichiamo ampi stralci del discorso di Gustavo Zagrebelsky, scritto in occasione della cerimonia del 25 aprile 2017, che si terrà domani a Savigliano, in provincia di Cuneo.
Fiumi di retorica! Bella, commovente, doverosa per festeggiare la Liberazione!
Milioni di persone in marcia sotto mille e mille Tricolori mentre risuona tonante “Bella Ciao!” da far accaponare la pelle.
E si esalta la Resistenza quasi dimenticando che la Liberazione è stata figlia di mille e mille attacchi, dove il sangue degli audaci e impazienti ha tracciato la via a quelli che hanno piantato le bandiere nelle piazze delle città liberate!
E siccome limitarsi a resistere ritarda solo la fine, e per vincere è necessario attaccare, mi piacerebbe festeggiare ed esaltare “L’ATTACCANZA” e non solo con la bella e inefficace retorica o le belle manifestazioni che non lasciano traccia nella realtà difficile che viviamo, ma con attacchi puntuali e di efficacia assoluta verso quell’asfissiante mediocrità parlamentare che rigurgita e tollera una palude crescente di mafie corrosive, evasione fiscale impunita, giustizia prescritta o troppo tarda, corruzione devastante, ponti che crollano come castelli di sabbia, povertà a milioni e crescente, lavoro povero, nero e mancante… e una iniquità intollerabile nella difficoltà diffusa!
Ma si può esaltare Resistenza e Liberazione sotto questa cappa grave e greve, senza attaccarla con gli strumenti che la Costituzione, appena salvata e ancora come sempre negata, ci mette a disposizione, e che nessuno pare cogliere nella loro potenzialità?
NO! NON SI PUO’ E SOPRATTUTTO NON SI DEVE!
E’ una contaddizione, una bestemmia verso quelli che commossi ricordiamo!
Rivoluzione Costituzionale e Gloriosa (cioè non violenta e risolutiva) per cambiare il destino del Paese esercitando la Carta!
SI PUO’ E SI DEVE! Con la Sovranità Popolare (art. UNO non per caso!) non solo enunciata, ma Realizzata sotto gli artt. 71 e 50 che consentono la Democrazia Diretta Propositiva, che in Essa diventa impositiva!
Ma cosa aspettiamo? Forse che lo facciaa modo suo la nostra banlieu nazionale di 7,2 milioni di poveri (ISTAT)?
Paolo Barbieri
Caro prof. è vero ed è grave, perchè da interviste ai giovani d’oggi condotte dalla Rai ( sic) emerge che nei programmi dei vari Ministri dell’Istruzione pubblica ( e privata) dal 1948 ad oggi, sembra che l’argomento Costituzione non sia insegnato come dovrebbe essere. Nè insegnano che questa Costituzione è costata qualche milione di morti durante la seconda guerra mondiale.Ma lo colpa più grave è dei genitori d’oggi che non lo trasmettono ai propri filgi e nipoti, perchè quella maledetta guerra i loro genitori o nonni l’hanno combattutta e spesso sono morti. Sembra che nei palazzi romani e non solo, si voglia cancellare la memoria storica del nostro Paese, tacendo sul fatto che ora siamo un colonia USA. A chi giova?
L’antifascismo si chiama così perché è incominciato dopo la fine della prima guerra mondiale. Zagrebelsky non si deve chiedere “che cosa sarebbe successo se il fascismo avesse vinto”, perché aveva vinto nel ’22. Con il voto degli italiani che se lo tennero vent’anni, fino a quando un’altra generazione raccolse la lezione degli antifascisti che avevano continuato e resistere nella coerenza e, con l’aiuto degli Alleati, liberò il paese e fece la nuova Costituzione (a cui oggi è impedito di esercitare i fini istitutivi perché, con Zagrebelsky, gli italiani hanno ritenuto che gli ordinamenti debbano durare per sempre, anche quando storicamente impediscono l’attuazione dei valori