Padoan. La parola pace e la parola conflitto

06 Dic 2023

Daniela Padoan Presidente Libertà e Giustizia, Scrittrice

di Daniela Padoan. Questo articolo è l’estensione di una riflessione che la presidente di Libertà e Giustizia ha tenuto nella giornata del 2 dicembre 2023 al convegno “La parola Pace, utopia che deve farsi realtà” organizzato da Promessa Democratica presso la Fondazione Feltrinelli di Milano.

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Parlare di pace significa anche parlare di conflitto: di capacità e di possibilità di confliggere, di spazi di legittimità del conflitto, di figure terze e istituzioni deputate alla mediazione.
L’abitudine alle guerre che ci circondano e di cui siamo spettatori passivi sta minando non solo la nostra percezione della funzione e della credibilità del diritto internazionale umanitario, a cominciare dalla protezione dei civili, ma anche lo spazio di mediazione interno che è condizione d’essere della pace e delle democrazie.
La convivenza con la retorica della guerra, con il suo retaggio di vittime, vincitori e vinti, crea un modo di pensare, di sentire, di schierarsi, di argomentare che si riversa nel discorso pubblico, nell’informazione, nell’istruzione, nella dialettica politica; un’abitudine alla riduzione dell’altro a nemico, una disposizione alla fascinazione della forza e all’irrisione della debolezza. E una leggerezza, una sconsideratezza, nel veder slittare le istituzioni a cui abbiamo affidato la cura del nostro spazio comune, del nostro vivere insieme.


La nascita dell’Organizzazione delle Nazioni Unite, la Dichiarazione universale dei diritti umani, il progetto di Unione Europea sono state l’esito di una volontà di rinascita dopo il precipizio costituito da due guerre mondiali, l’invenzione dei campi di sterminio, l’uso della bomba atomica contro i civili. Ci separa da quei giorni un lasso di tempo brevissimo, che ci pare immenso: una cesura tra dispotismo criminale e democrazia. Ma ecco che quell’argine non appare più così saldo: nazionalismi, richiami identitari, nuovi muri e nuovi campi, una massa di senza diritti in fuga, ridotti a nuda vita da contenere, respingere, allontanare. E di nuovo la minaccia nucleare, guerre, tentazione di uomini soli al comando.
Il cupio dissolvi che disastra gli organismi internazionali e destituisce di autorità i possibili mediatori, dall’Onu al Papa, si declina anche sul piano nazionale. Termini guerreschi, militari, bellici si infiltrano e si radicano nella vita pubblica e politica. Retoriche vuote e marziali – di patria e di onore, di umiliazione e di ordine – tornano da un passato che credevamo lontano, insieme a una volontà di procedere all’occupazione del potere, alla conquista di ogni spazio – dalla Rai alle istituzioni culturali, dall’Antimafia alle società partecipate, fino alla “madre di tutte le riforme”, quella che vuole manomettere la Costituzione – relegando la presidenza della Repubblica a un ruolo puramente rappresentativo, svincolandosi da equilibri e bilanciamenti e umiliando i luoghi della democrazia, a cominciare dal Parlamento.


Fra i caratteri costitutivi dell’autoritarismo c’è, come scriveva il grande politologo Juan Linz, l’insofferenza verso ogni limite all’esercizio del potere. Ma manifestazione degenerativa dell’autorità legittima è anche un uso della forza statuale che rischia di declinarsi unicamente in repressione, politiche securitarie, militarizzazione della società, criminalizzazione del dissenso.
Il governo in carica ha esordito con un decreto che punisce chi partecipa a un rave con una condanna dai tre ai sei anni: un’enormità lunare, se si pensa che la pena per banda armata va dai tre ai nove anni. Ha dichiarato lo stato d’emergenza nazionale sull’immigrazione. In poco più di un anno, ha introdotto quindici nuovi reati o fattispecie di reato, più di uno al mese, di cui otto già entrati in vigore. L’ultimo Ddl sicurezza introduce “una fattispecie aggravata per colui che imbratta o deturpa” beni mobili e immobili adibiti all’esercizio di funzioni pubbliche “qualora il fatto sia commesso con la finalità di ledere l’onore, il prestigio o il decoro dell’istituzione cui il bene appartiene, con inasprimento della reclusione in caso di recidiva”. Si “aggrava la pena prevista per il delitto d’istigazione a disobbedire alle leggi, se è commesso al fine di far realizzare una rivolta all’interno di un istituto penitenziario”. Si introduce “il delitto di rivolta in istituto penitenziario”. Si prevede anche un reato che punisce, con la pena della reclusione da uno a sei anni, “lo straniero che, durante il trattenimento presso i centri per i rimpatri o la permanenza nelle strutture per richiedenti asilo o altre strutture di accoglienza o di contrasto all’immigrazione illegale, mediante atti di violenza o minaccia, o mediante atti di resistenza anche passiva all’esecuzione degli ordini impartiti dalle autorità, posti in essere da tre o più persone riunite, promuove, organizza, dirige una rivolta”, dimenticando che si tratta di persone rinchiuse senza aver commesso reato, alle quali verrebbe dunque preclusa anche la resistenza passiva, messa in atto da Gandhi, Andrej Sacharov, Martin Luther King, Vaclav Havel. “Per il solo fatto di partecipare alla rivolta, la pena è della reclusione da uno a quattro anni”.
Soglia dopo soglia, vediamo diventare normali espressioni come “guerra globale ai trafficanti”, “reato universale” per il contrasto della gestazione eterologa, “ecoterroristi” per designare giovani ecologisti, tanto che subito, per Ultima Generazione, ne sono discese incriminazioni per associazione a delinquere. Assistiamo all’attacco diretto al diritto di sciopero, con l’uso sistematico della precettazione persino in occasione della proclamazione di uno sciopero generale, fatto senza precedenti nella storia repubblicana.


E quando, lo scorso 25 novembre, centinaia di migliaia di donne sono scese in piazza protestando non solo contro i fidanzati e i mariti che ammazzano le fidanzate e le mogli, ma contro un sistema di potere che elimina i corpi, simbolicamente e fisicamente – anche quelli degli incidenti sul lavoro, anche femminili – i giornali di destra hanno parlato di «linguaggio brigatista» da parte di Non Una di Meno, che ha organizzato la manifestazione e rivendicato la protesta davanti alla sede di Pro Vita. Un eccesso linguistico a dimostrazione del fatto che sul patriarcato si sta giocando una questione profonda, che mette in discussione l’amministrazione statuale del potere sui corpi, dall’interruzione di gravidanza al reato di tortura, dalle istituzioni totali, a cominciare dai manicomi, alla criminalizzazione del dissenso.
Se scrivi su un muro, se stracci un volantino, se bruci una bandiera, se esponi un cartello che contesta o irride l’esecutivo, non sei un criminale. Se il rapporto tra ordine pubblico e libertà di manifestazione pubblica del dissenso, delicatissimo per gli equilibri interni di un sistema democratico, inclina immediatamente dalla parte del crimine senza che questo costituisca scandalo, a essere in gioco è la libertà di espressione. Accettare la retorica per cui conflitto equivale a violenza, significa, anche da parte della sinistra, compartecipare alla perdita della mediazione necessaria al mantenimento della democrazia e della pace.
Il dissenso, la protesta, non sempre possono essere educati; a volte possono essere ironici, certamente sono liberi, e hanno necessità di canali di espressione e di luoghi di ascolto, perché quando il conflitto viene soffocato, compresso, criminalizzato, diventa scontro.


La democrazia senza conflitto è un ossimoro: è la possibilità del suo esercizio a permetterci di percorrere il sentiero stretto tra autorità e libertà. Lo scorso marzo, mentre la Francia era infiammata dalle proteste contro l’allungamento dell’età pensionabile, la presidente del Consiglio venne scortata al congresso nazionale della Cgil, ma le delegate che ne contestavano la presenza, con una straordinaria invenzione simbolica, lasciarono sotto il palco decine di pelouche, come infantili e potentissimi atti di accusa che richiamavano quelli deposti pochi giorni prima accanto alle salme dei piccoli naufraghi di Cutro. Nulla di più inoffensivo, nulla di più chiaro nel rovesciamento.
Il nostro paese – che conta cento morti sul lavoro ogni mese, 2,18 milioni di famiglie in povertà assoluta, il 13,4% di povertà assoluta tra i minori, un abbandono scolastico che riguarda un ragazzo su sei – ci è appena stato mostrato in uno specchio impietoso: «Per l’80% degli italiani, viviamo in un Paese in declino», afferma l’ultimo rapporto Censis, tanto da concludere che l’Italia è «un paese di sonnambuli» che non vedono prospettive, sono ripiegati su se stessi, vivono in una “ipertrofia emotiva” dominata dalla paura che si trasforma in paralisi. Un’immagine tremenda, che richiama, forse volontariamente, la trilogia dei Sonnambuli di Hermann Broch, i tre gradini che l’Europa scese, verso «il crollo finale della sua cultura e della sua ragion d’essere», ovvero verso il nazismo.
Non si tratta ovviamente di equivalenze, ma di comprensione dell’humus che portò al disfacimento europeo. Al suo nascere, il fascismo non fu preso sul serio. Fino al 1924, scrisse Piero Calamandrei, l’opposizione alla violenza squadrista fu alimentata, sulla stampa e in Parlamento, «dalla generosa illusione della libertà che si difende da sé, come una forza di natura. Non fu viltà o debolezza, fu disorientamento ed errore di gente onesta e civile».
Nello stesso disorientamento ed errore, secondo Calamandrei, incorsero le democrazie europee, incapaci di vedere che in Italia si insediava una «anemia critica», una «stomachevole uniformità di tutti i giornali», una «ributtante retorica, tracotante e menzognera, penetrata come un contagio», che aveva «reso insopportabile alle persone di buon gusto perfino il titolo di certi giornali e a che a taluno faceva preferire di stare una settimana senza notizie piuttosto che insudiciarsi le mani ad aprire uno di quei fogli immondi».
Mussolini poté contare su una generale transigenza, una disposizione all’accomodamento, un distogliere lo sguardo. Un assentire al suo linguaggio che prometteva forza dove c’era debolezza. Che toglieva l’ossigeno della libertà, dell’espressione della molteplicità.


La senatrice a vita Liliana Segre – carica che il ddl di riforma costituzionale finalizzato all’introduzione del premierato si propone di eliminare – ha avvertito, nella parte conclusiva del discorso con cui consegnò la presidenza del Senato a Ignazio La Russa, che è essenziale applicare l’articolo 3 della nostra Costituzione, quello che chiamò la “nostra stella polare”. Padri e madri costituenti, disse, «vollero anche lasciare un compito perpetuo alla Repubblica: “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”. Non è poesia e non è utopia: è la stella polare che dovrebbe guidarci tutti, anche se abbiamo programmi diversi per seguirla: rimuovere quegli ostacoli!» «Non c’è un momento da perdere – aggiunse – dalle istituzioni democratiche deve venire il segnale chiaro che nessuno verrà lasciato solo, prima che la paura e la rabbia possano raggiungere i livelli di guardia e tracimare».

Scrittrice, saggista, si occupa da anni di razzismo e dei totalitarismi del Novecento, con particolare attenzione alla testimonianza delle dittature e alle pratiche di resistenza femminile ai regimi.

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