Prendiamo il gruppo che riunisce le principali economie dei paesi avanzati: Canada, Francia, Germania, Giappone, Italia, Regno Unito e Stati Uniti, le democrazie modello dell’Occidente. Quali di questi paesi hanno rischiato un cambiamento violento di regime negli ultimi 60 anni? Solo uno, gli Stati Uniti, il 6 gennaio 2021. Il cuore dell’impero è anche il suo luogo più vulnerabile, quello dove i pretoriani possono prendere il potere con la violenza e insediare un nuovo imperatore, come nella Roma del III secolo dopo Cristo.
C’era stato il caso della Francia, nel 1958, con la ribellione di un gruppo di generali che rifiutavano di accettare l’inevitabile indipendenza dell’Algeria, ma Charles de Gaulle era troppo abile e carismatico per loro: il colpo di stato fallì nel giro di pochi giorni e dallo scampato pericolo nacque la repubblica presidenziale attuale. Nulla, ovviamente, in Giappone, Canada, Gran Bretagna e Germania, mentre l’Italia aveva dovuto fare i conti con i complotti del piano Solo e del “golpe Borghese” ma niente di lontanamente paragonabile a ciò che è accaduto negli Stati Uniti un anno e mezzo fa, con un assalto paramilitare al parlamento.
Nella società americana la guerra civile strisciante non è iniziata nel 2021: da almeno 14 anni, dalla vittoria di Obama nel 2008, i repubblicani hanno deciso di fare terra bruciata, di rinunciare a vincere proponendo idee o soluzioni conservatrici e di puntare tutto sulle guerre culturali. L’America rurale, nostalgica degli anni Cinquanta, non sempre razzista ma certamente convinta che donne, neri e ispanici dovrebbe “tornare al loro posto”: quella è la base elettorale del partito repubblicano, una base minoritaria ma a cui l’oligarchico e iniquo sistema elettorale degli Stati Uniti permette spesso di vincere.
Era una strada in discesa, ovviamente: non c’è limite al risentimento dei maschi bianchi senza laurea che un tempo guadagnavano dignitosamente e poi si sono ritrovati a fare tre lavori contemporaneamente per sopravvivere. E non c’è limite allo spettacolo fascistoide di Trump che dal 2016 in poi ha dovuto continuamente rincarare la dose, insultare e minacciare, mentire su qualsiasi cosa e in ogni momento, giusto per mantenere attento il suo pubblico. L’attacco al Congresso del 6 gennaio 2021 è stata la conseguenza inevitabile di tutto questo.
Le indagini della commissione della Camera incaricata di indagare hanno rivelato che lo schema per rovesciare il risultato delle elezioni a favore di Biden non era un’iniziativa estemporanea di Trump ferito nel suo narcisismo: al contrario era un piano maturato a cavallo delle elezioni, quando i primi numeri avevano già fatto capire che Trump stava perdendo. Un piano a cui hanno attivamente collaborato funzionari della Casa Bianca, dirigenti del partito repubblicano a tutti i livelli e gruppi paramilitari come i Proud Boys, il cui leader Enrique Tarrio è accusato di sedizione.
Naturalmente i pesci piccoli sono già stati arrestati e processati, anche se il dipartimento della Giustizia è stato particolarmente indulgente nei loro confronti: a nessuno è stato finora contestato il reato di insurrezione, nonostante le migliaia di ore di filmati che documentano la violenza degli scontri tra manifestanti e polizia, il cui bilancio finale è stato di sette morti. Una inerzia che si spiega in un solo modo: a novembre si vota per la Camera dei rappresentanti e per un terzo del Senato; mandare sotto processo Donald Trump in questi mesi sarebbe un gigantesco spot elettorale a favore dei repubblicani, che potrebbero mobilitare i loro elettori per impedire il “processo politico”.
Questa prudenza dell’amministrazione Biden è stata però compensata da un eccellente lavoro investigativo della Commissione della Camera, che stasera inizierà le sue audizioni pubbliche sul tentativo di colpo di stato. Audizioni che dovrebbero finalmente mostrare a un distratto pubblico americano quanto vicini si sia andati al caos istituzionale o alla guerra civile in quei giorni. Una delle cose che non si erano immediatamente capite, per esempio, è il fatto che in realtà l’eroe della giornata era stato il vicepresidente Mike Pence, un repubblicano conservatore e bigotto che però, nel momento cruciale in cui gli scherani di Trump erano già penetrati nel Campidoglio, si è rifiutato tassativamente di abbandonare l’edificio, permettendo gradualmente alla polizia di riprendere il controllo del Congresso e di proseguire le operazioni di certificazione della vittoria elettorale di Joe Biden. Senza questo passaggio istituzionale gli Stati Uniti sarebbero precipitati nel caos.
Pence (che gli squadristi volevano fisicamente impiccare) ha saputo dire “no” al momento giusto ma il fatto che senza il suo coraggio fisico e morale il golpe sarebbe riuscito ci dice quanto fragili siano le basi della democrazia che mezzo mondo prende a modello.
il manifesto, 9 giugno 2022, pubblicato col titolo: Il cuore vulnerabile dell’impero statunitense