1. Sul Corriere della Sera del 27 dicembre è stata sintetizzata in dieci istantanee la “storia” dell’attuale legislatura. La n. 9 rappresenta «l’immagine di Matteo Renzi che nella sala stampa di Palazzo Chigi annuncia le sue dimissioni dopo la disfatta del referendum costituzionale del 4 dicembre 2016». L’autore dell’articolo si ferma qui, mentre sarebbe stato opportuno andare un po’ indietro e ricordare che la riforma Renzi-Boschi venne votata da un Parlamento illegittimo nella sua composizione nonostante la Corte costituzionale, con la sentenza n. 1 del 2014, avesse dichiarato incostituzionale il c.d. Porcellum in forza del quale era stato eletto. Il vero è che sia a causa dell’ignoranza dell’opinione pubblica circa i tecnicismi giuridici, sia a causa della mala fede dei detentori del potere, sulla sentenza n. 1 del 2014 fu steso un velo soprattutto comodo per i partiti, in particolare il PD, che avevano lucrato un illegittimo cospicuo premio di maggioranza.
Un Parlamento “delegittimato”, quindi, che nondimeno modificò ben 55 articoli della Costituzione, senza che gli allora Presidenti della Repubblica e della Corte costituzionale – entrambi c.d. “garanti” della Costituzione – battessero ciglio. Omettendo quindi di considerare che la Corte costituzionale aveva chiaramente avvertito, nelle ultime battute del n. 7 del “considerato in diritto” della sentenza n. 1 del 2014, che il principio della “continuità istituzionale” non avrebbe potuto, alla lunga, sostituirsi al doveroso voto popolare. Con l’abnorme conseguenza che, per tutta la XVII legislatura, abbiamo avuto un Parlamento costituzionalmente viziato nella sua composizione, che solo il M5S aveva reiteratamente denunciato.
Né quel “peccato originale” venne attenuato, strada facendo, dalla c.d. riforma Renzi-Boschi. Che anzi violò la libertà di voto (art. 48 Cost.) in conseguenza della disomogeneità del contenuto prescrittivo della riforma. Che violò il “principio supremo” della sovranità popolare (art. 1 comma 2 Cost.) negando l’elettività diretta del Senato. Che conferì, in violazione dell’art. 3 Cost., funzioni senatoriali part-time a consiglieri regionali e a sindaci privi della diretta legittimazione democratica. Che, in violazione dell’art. 5 Cost., attribuì alle regioni, tranne qualche eccezione, soltanto competenze legislative di contenuto meramente organizzativo. Che modificò surrettiziamente la forma di governo, indebolendo i contro-poteri e conseguentemente rafforzando indirettamente i poteri del Governo, e soprattutto quelli del Premier. E così via.
Ed è anche per queste ragioni tecniche, la grande maggioranza degli elettori si espresse in favore del No, non solo per lo stravolgimento apportato al sistema costituzionale, ma per la complessità delle modifiche costituzionali. Dando così ragione, nei fatti, al procedimento di revisione costituzionale previsto dall’art. 138 Cost., che prevede soltanto revisioni puntuali o comunque omogenee. Non riforme megagalattiche come la Renzi-Boschi.
2. Sta di fatto che fino al 1983 – e cioè per ben 35 anni – sia le leggi costituzionali, sia le leggi di revisione costituzionale hanno sempre avuto un contenuto puntuale o comunque omogeneo. In linea quindi con quanto il Presidente Terracini, in una delle ultimissime riunioni della Commissione per la Costituzione (15 gennaio 1947), aveva affermato, in risposta all’on. Mortati, che l’Assemblea costituente si doveva «limitare all’ipotesi di una revisione parziale». Nelle prime monografie sulla revisione costituzionale, il problema delle mega riforme non fu minimamente sollevato.
Del resto nella lingua italiana una cosa è la “riforma”, altra cosa è la “revisione”. Prescindendo dal significato giuridico del concetto di “revisione”, nel Grande dizionario della lingua italiana il concetto di revisione allude sempre ad attività puntuali: alle operazioni di esame e di verifica della verità e di conformità di un conto economico o di un bilancio; al riesame di una sentenza o di una causa decisa; all’esame stilistico di un’opera letteraria; all’esame preventivo di un testo destinato alla stampa o alla conformità alle disposizioni di legge; al riscontro periodico dell’operato della pubblica amministrazione e all’insieme delle operazioni di controllo e di manutenzione di macchine (ad es. le automobili).
Era quindi assolutamente pacifico, almeno fino agli anni ’90, che le modifiche costituzionali dovessero servire solo a modificare specifiche disposizioni; «ad ammodernare, adeguare, perfezionare, rabberciare un vecchio meccanismo» o, tutt’al più, a innovare qualche istituto politico lasciando intatti gli altri.
E quindi, quando fu approvata la legge sui referendum n. 352 del 1970, le “riforme” erano ancora di là da venire, per cui l’applicazione della legge n. 352 ad esse – da parte dei loro sostenitori – costituì un’evidente forzatura, tant’è vero che si giunse addirittura a sostenere che alle mega riforme non sarebbero applicabili i principi della sovranità popolare (art. 1 Cost.) e della libertà di voto (art. 48 Cost.), perché il procedimento di revisione costituzionale sarebbe derogatorio di quei due principi fondamentali!
3. Sta di fatto, che delle possibili “riforme” costituzionali si cominciò a parlare, a livello politico, soltanto alla fine degli anni ’70, col famoso articolo di Bettino Craxi, apparso sull’Avanti nel dicembre del 1979, nel quale veniva teorizzata “la Grande Riforma” consistente nella modifica della forma di governo da parlamentare in presidenziale. Che però non ebbe alcun seguito.
I successivi tentativi di “grandi riforme” sono tutti inesorabilmente falliti: così le riforme Bozzi (1985) e Letta (2013) che non furono nemmeno approvate; le leggi di riforma De Mita-Iotti (1993) e D’Alema (1997), che furono approvate ma, avendo un contenuto meramente organizzative, non ebbero un seguito normativo; le riforme Berlusconi (2006) e Renzi-Boschi (2016) che furono respinte in sede referendaria. Il che conferma l’estraneità delle mega riforme nei confronti del nostro sistema costituzionale che prevede soltanto “revisioni”.
Sorprende, perciò, che un politico intelligente come il ministro Carlo Calenda, nell’intervista di Lorenzo Salvia apparsa sul Corriere del 27 dicembre, abbia addirittura auspicato l’istituzione di un’Assemblea costituente nella prossima legislatura «per aumentare il coinvolgimento dei cittadini», evidentemente, senza rendersi conto:
1) che l’istituzione di un’Assemblea costituente costituisce, per definizione, la negazione dei valori della costituzione alla quale pretende di sostituirsi (nella specie: la Costituzione del 1947);
2) che l’elezione di un’Assemblea costituente non determinerebbe, di per sé, un “coinvolgimento” dei cittadini, ma solo un voto come gli altri (per cui il voto popolare confermativo ex art. 138 comma 2 Cost. implica un indubbio maggior coinvolgimento);
3) che solo nelle revisioni puntuali o omogenee la sovranità popolare viene effettivamente esercitata, poiché solo di fronte ad un singolo quesito relativo ad un singolo articolo e su una pluralità di articoli dal contenuto omogeneo, i cittadini sono effettivamente liberi di votare Sì o No. Che è poi la tesi sostenuta dalla maggioranza dei costituzionalisti, tra cui i più autorevoli, secondo i quali le riforme disomogenee coerciscono la libertà di voto, essendo svariati i quesiti ad esse sottese.
(*) Pubblichiamo l’intervento di Alessandro Pace, decano dei costituzionalisti italiani, al convegno “La Costituzione della Repubblica è sempre giovane”, organizzato a Roma in Senato, per il settantesimo anniversario della firma della nostra Carta, per iniziativa del Coordinamento per la Democrazia Costituzionale.