Nei primi anni della democrazia, le giornate elettorali erano giorni di festa. Chi ha una certa età e un minimo di memoria, ricorda che ai seggi c’era chi si recava con il “vestito buono” e non solo perché era domenica. Si festeggiava la riconquistata libertà. Un’abissale distanza dai rassegnati rituali dei giorni nostri, quando due elettori su tre hanno disertato, non trovando valide ragioni nemmeno per quel piccolo atto di impegno politico che è la scheda depositata nell’ urna. Ora finalmente, l’astensione di massa è entrata nella discussione politica. Ma di che cosa si discute? Soprattutto di come attirare o recuperare alla propria parte i voti perduti; di come pescare qualcosa in quel grande bacino di astenentisi che è diventato il più grande partito italiano, più grande di tutti gli altri messi insieme. Insomma, i partiti pensano ai propri interessi facendo promesse sempre meno credute, per sedurre gli elettori e intercettarne i voti. In prossimità delle elezioni, cioè, fanno esattamente ciò che è la causa della frustrazione della democrazia. In Italia c’è il suffragio universale: vero e falso. Vero, perché il diritto di voto è riconosciuto a tutti; falso, perché solo una minoranza lo esercita. È la differenza tra ciò che è in potenza (il diritto) e ciò che è in atto (l’esercizio del diritto). Il voto è diritto di tutti e molti non lo usano. Così la democrazia, che dovrebbe essere il sistema politico della larga partecipazione, diventa “olicrazia”, il regime in cui il governo è nelle mani di minoranze. Senza che si cambino le leggi, cambia la forma di governo.
C’è, innanzitutto, una questione quantitativa. Un tempo,”l’astenuto” era l’eccezione. Nelle prime elezioni repubblicane, nel 1948, i cittadini che andarono al voto furono il 92,23 per cento: cioè, tolti coloro che erano impediti dagli acciacchi, dalla malattia o dall’ assenza dall’Italia, tutti. A partire dagli anni ’80, si scese sotto l’80 per cento e si incominciò a riflettere. Oggi possiamo dire che non è l’astenuto l’eccezione, ma è il votante, soprattutto in certe fasce d’età e in certe categorie sociali. Una volta ci si chiedeva quali fossero le ragioni del non- voto; oggi, quali le ragioni del voto: un vero e proprio ribaltamento. Il diritto c’è, ma la maggioranza non ne fa uso. Se è vero che l’esercizio dei diritti è ciò che forma l’ossatura morale d’una società (una volta si diceva che bisogna tenere sempre strette le mani sui propri diritti), allora dobbiamo concludere che siamo diventati un popolo straordinariamente malleabile, arrendevole.I politologi si consolano troppo facilmente osservando che l’astensionismo è diffuso dappertutto, talora in misura anche maggiore che in Italia. Parlando solo dell’Europa, le statistiche provano che siamo comunque nella media dei maggiori Paesi dei quali non si potrebbe contestare il carattere democratico (Regno Unito, Francia, Germania, Svizzera, ecc.). Si dice anzi che sarebbe il sintomo di “democrazie mature”, consolidate: ci si fida a tal punto gli uni degli altri che non si considera necessario agire in proprio. In un certo senso, gli astenuti si fanno rappresentare dai votanti. Il sintomo, tuttavia, è ambiguo. Non dappertutto e sempre esso significa la stessa cosa. Occorrerebbe andare a fondo nelle motivazioni: molta fiducia e molta sfiducia possono produrre lo stesso effetto. La fiducia è il pilastro della democrazia, ma la sfiducia ne è il tarlo. Non c’è bisogno di sondaggi, statistiche, analisi per capire che in Italia siamo di fronte al rinascente fenomeno di massa del rifiuto della politica, e per sapere di quale mescolanza di delusione, frustrazione, rassegnazione, rabbia e disprezzo esso si alimenta. Basta un po’ di ordinarie, quotidiane frequentazioni e conversazioni.
C’è, poi anche, una questione qualitativa. Si dice che il nostro tempo è quello del populismo e dell’ antipolitica, e il dilagante astensionismo è spesso indicato come un effetto dell’uno e dell’altra. Chissà perché? I populismi, comunque li si concepisca, sono sempre regimi della mobilitazione di massa (mobilitazione, non partecipazione), mentre l’astensione è una smobilitazione. L’anti- politica, poi, è un sentimento attivo che si rivolge “contro”: contro le istituzioni, i politici, lo Stato, e può sfociare in ribellismo e in anarchismo. L’astensionismo, forse, più precisamente potrebbe definirsi non- politica, “impolitica”: cioè l’atteggiamento rassegnato di chi dice “lasciatemi in pace” oppure, drammaticamente, “ho perso ogni speranza” perché non so chi votare, a chi votarmi. C’è poi, invece, il popolo dei votanti, il popolo composto da coloro che sanno chi votare – perché mantengono viva una fedeltà, una speranza e una fiducia – e da coloro che sanno a chi votarsi – perché hanno ricevuto promesse di favori o minacce di ritorsioni. Il voto dei primi è libero; quello dei secondi, è forzato. Coloro che appartengono al mondo di chi sa a chi votarsi di certo non si astengono. Così, tanto maggiore è il loro numero, tanto maggiore è l’incidenza del voto corrotto su quello libero. Se – supponiamo – votano in cento e i voti corrotti sono venti, i venti rappresentano un quinto del totale; se votano in sessanta e i voti corrotti sono sempre venti, i venti rappresentano un terzo del totale. Ciò significa, in breve, che l’ astensionismo attribuisce un plusvalore al voto di scambio e, in genere, all’influenza delle varie forme di criminalità organizzata che operano nel nostro Paese. La crescita dell’astensione le favorisce. Si ha un bel dire che, astenendosi, i cittadini reagiscono in quel modo al degrado della politica “lanciando segnali”: nel frattempo, però, non fanno altro che dare maggiore potere a coloro contro i quali vorrebbero dirigere la loro protesta.
C’è, infine, la questione politica. Tra gli astenuti, moltissimi sono coloro che dicono: voterei certamente, se solo sapessi per chi. E molti lo dicono con amarezza, perché sanno quanto è costata in lacrime e sangue la conquista del diritto di voto, per ogni spirito democratico il più sacro di tutti. Ma, per non fare vuota retorica (“occorre”,”serve”,”bisogna”), non basta (più) invocare il “dovere civico” di cui parla la Costituzione. Deve riattivarsi il circuito della domanda (degli elettori) e dell’offerta (di chi si candida a essere eletto).
C’è stato un tempo in cui si chiedeva: tu che ti astieni, che motivo hai per non votare. Oggi, spesso, si vuole sapere da chi non si astiene che motivo ha per votare. Qui c’è la questione politica. Il voto è un mercato. La parola può sembrare odiosa e lo è se il “bene” offerto è il favoritismo, il patronage d’interessi particolari a danno di quelli comuni, il clientelismo, la promessa d’illegalità, la corruzione, la partecipazione in opache strutture d’interessi. Non siamo (ancora) a questo punto ma, se i “giri del potere” si stringeranno ancora e l’ astensione di coloro che ne sono estranei crescerà, verrà il momento in cui l’elettore che fa uso del diritto di voto sarà sospettato di collusione. La merce offerta sul mercato elettorale può, tuttavia, essere altra: onestà, esperienza, competenza, idee e ideali concreti di vita comune. Questa è la merce che manca al popolo di chi si astiene. Se qualcuno volesse farsene un’idea approfondita, potrebbe leggere il famoso saggio di Max Weber La politica come professione. I partiti che si candidano alle elezioni, così come sono, sono all’altezza del bisogno? Oppure il tempo per correre ai ripari è passato irrimediabilmente? È difficile l’innamoramento di ritorno, ma è ancor più difficile il ritorno alla politica di chi ne è stato prima illuso e poi disgustato. Di fronte a questo compito, tanto vasto e urgente quanto essenziale per la democrazia, gli slogan, le promesse, le alchimie, le furbizie elettorali, le incoerenze, le menzogne e le recriminazioni reciproche sono contorcimenti nel vuoto che, se possibile, danno ragioni crescenti al popolo degli astenuti che osserva. C’è nell’aria un desiderio di ricominciamento; c’è un sentimento ambiguo di “piazza pulita”. Può essere il preludio a una catastrofe o a una rigenerazione. Se sarà la prima, gli storici daranno tutta la colpa alle inadeguatezze dei partiti e dei loro dirigenti, all’arroccamento nei posti e sulle posizioni acquisite e all’incapacità di cogliere il momento, comprendendo quando i vecchi tempi sono al tramonto e occorre promuoverne di nuovi.
la Repubblica, 23 novembre 2017