Esattamente trent’anni fa, nell’estate del 1986, ero una giovane laureata in lettere e filosofia di belle speranze. Con il diploma in mano vinsi una borsa di studio per un master alla scuola di specializzazione estiva dell’Università di Urbino, dove allora regnava incontrastato il Magnifico Rettore Carlo Bo, un mito della cultura umanistica.
Come formazione ero italianista, ma avevo studiato di tutto un po’, antico e moderno: filologia classica e letterature comparate, psicolinguistica e critica letteraria. Il Centro Internazionale di semiotica sui colli di Urbino era quello che mi ci voleva per la lunga estate che si preannunciava: il corso di quell’anno prometteva molto, perfino un seminario con il professor Umberto Eco sull’arte, tutta italiana, della dimenticanza.
Al mio attivo avevo due lettere di presentazione che esibivo come un lasciapassare in terre inesplorate: una del mio relatore di tesi, docente alla Sapienza di Roma, l’altra di un altro professore universitario del nuovo ateneo romano di Tor Vergata, presso la cui cattedra di Filosofia Estetica avevo cominciato a lavorare.
A Urbino non ero mai stata: il paesaggio era esattamente quello ritratto nei quadri dei duchi da Montefeltro di Piero della Francesca, pittore di cui ero e sono innamorata, ora come allora. C’erano ancora le lucciole di notte, anche in luglio, mi spiegarono all’arrivo al Collegio universitario sul Colle dei Cappuccini, circondato da campi, siepi, alberi e colline. Anche se molte, molte meno di quelle che si potevano incontrare in maggio e giugno.
Per me che venivo dalla città surriscaldata di luglio, la campagna di Urbino ventosa, come la descrive Pascoli nell’Aquilone, era fresca e invitante. Feci amicizia con una ragazza tedesca con cui condividevo la semplice stanza a due letti. Il cibo era decoroso, il sonno magnifico, ma le lezioni… le lezioni, nostra croce e delizia, ci sfinivano: ore e ore, mattina e pomeriggio, tanto che eravamo libere solo nel tardo pomeriggio, a prezzo di intorpidimenti e mal di testa.
Però in quelle aule ad anfiteatro si parlava di tutto. Così, insieme alle giornate piene di sole e di vento, di cicale e di lucciole, c’erano quelle lezioni zeppe di idee, di nomi, di storie, di paragoni, in una parola di sapere. Non credo di essere mai più stata così vicina alla conoscenza come allora: mi sembrava fosse qualcosa che potevo toccare con le mie stesse mani, ma al solo sfiorarla ecco che sfuggiva.
Il professor Eco giunse da Bologna con una specie di codazzo al seguito, composto da altri docenti, amici, conoscenti, giovani allievi e allieve, in un clima allegro e festoso: venivano dal Dams, università nata allora da pochi anni, che godeva di un’aura speciale e creativa. Molti di loro erano già stati ai Cappuccini, conoscevano le stanze, le sale, i vialetti, non si perdevano continuamente quando ci si doveva spostare da un’aula all’altra. In alcuni brevi intervalli tra le lezioni -il primo a metà mattina e il secondo nel tardo pomeriggio, mentre il sole era ancora alto nel cielo- ci era permesso di giocare a ping pong. Un divertimento di cui erano partecipi molti dei docenti più giovani.
Uno di loro, in particolare, era molto bravo: aveva dei baffi scuri e si chiamava Omar Calabrese, braccio destro di Eco. Sarebbe poi divenuto a sua volta docente all’Università di Siena e morto in seguito troppo precocemente. L’ultima volta che lo avevo sentito era per intervistarlo su una nuova forma di scrittura: i blog dei corrispondenti al tempo della guerra in Irak. Il professore, invece, mentre gli altri si divertivano, incontrava colleghi, italiani e stranieri, chiacchierava, rideva del successo del suo libro (il primo romanzo che aveva scritto e che io avevo divorato entusiasta, “Il nome della rosa”), raccontando le critiche malevole e velenose di altri studiosi, invidiosi della sua fama che cominciava a farsi vastissima, e ne annunciava un secondo.
Conservo ancora da qualche parte, in un quaderno giallo, gli appunti del suo seminario sul “Il pressappoco e il quasi niente”: non avrei mai creduto che un simile tema sarebbe potuto divenire oggetto di acuta indagine critica e di altrettante risate, ma lo fu. Eco possedeva una cultura sterminata e saltava di palo in frasca appoggiandosi ad autori, filosofi, mistici, ai giornali, al mainstream, alle vicende della vita quotidiana in una girandola rutilante di metafore e metonimie, segni e simboli, di cui noi studenti -incantati e completamente sedotti dal suo dire- non immaginavano neppure lontanamente l’esistenza.
Avrei voluto raccogliere le parole una per una e conservarle, tuttavia sfuggivano come diavoletti, ostinandosi a volar via nell’aria leggera dell’estate. Fu un periodo pieno di luce, me ne accorgo ora, a distanza di così tanti anni. E di tutto questo sono grata nel ricordo a Umberto Eco. Che in seguito, da studiosa e da giornalista, ho rincontrato in situazioni ugualmente piacevoli e interessanti, ma mai più con quello stupore e l’assoluta meraviglia di allora, in quella lontana estate di Urbino.
Roma, 20 febbraio 2016