Signor Presidente, devo confessare che prendo la parola con una certa soggezione, perché non sono un giurista né un costituzionalista, e mi rendo conto della complessità e della delicatezza della materia. Quindi farò alcune premesse, forse più impegnative rispetto alla discussione sulla microfisica delle norme, e poi uno svolgimento.
Si è assistito in questi giorni a un dibattito spesse volte falsato. Ebbene, voglio dire che, a mio avviso, il consenso abilita al governo, non all’esercizio del comando (Applausi dal Gruppo M5S). Non c’è nessun freno, nessun sabotaggio, nessuna imboscata, ma soltanto la passione di chi, a schiena dritta e a testa alta, difende le proprie convinzioni senza ricerca di alcun tornaconto; e vale anche la civiltà del linguaggio e la purificazione dei termini con cui avvaloriamo le nostre argomentazioni. Anche perché non sento aleggiare in quest’Aula il creator Spiritus di cui parlava Benedetto Croce in un intervento memorabile in occasione dell’approvazione della Costituzione.
Una seconda premessa. Non c’è dubbio che questa Assemblea dispone di una legittimità formale; la Corte costituzionale sotto questo profilo credo lo abbia chiarito in modo incontrovertibile. Ma, mi domando, noi disponiamo di una legittimazione etico-politica adeguata (Applausi dal Gruppo M5S e del senatore Di Maggio), essendo tutti noi espressione di un’elezione-nomina attraverso norme chiaramente definite incostituzionali?
Ma c’è un problema di fondo che sotto il profilo culturale mi intriga, ed è la profezia di Tocqueville. Com’è noto, Tocqueville ne «La democrazia in America» denuncia i rischi della democrazia di massa, di quella democrazia che è sottoposta al rischio del dispotismo paterno e della tirannide di maggioranza: quella tirannide – scrive – «che avvilisce gli uomini senza tormentarli». In un passaggio che io giudico di straordinaria preveggenza, Tocqueville scrive: «In politica (…), come in filosofia e in religione, l’intelligenza dei popoli democratici accoglie con piacere le idee semplici e generali. I sistemi complicati le destano ripugnanza ed essa immagina volentieri una grande Nazione in cui i cittadini assomigliano tutti ad un unico modello e sono diretti da un unico potere».
Che cosa ha a che vedere questa lungimirante profezia con i problemi che oggi dobbiamo affrontare? Qui sta l’origine e il fondamento del mio dissenso di fondo con il testo, non soltanto con quello alquanto sgrammaticato proposto dal Governo, ma anche con quello frutto del lavoro serio e impegnato della Commissione.
Sono stato per qualche tempo vice presidente dell’ANCI e quindi penso nessuno possa accusarmi di sottovalutare la prospettiva di un Senato delle Autonomie, al di là del fatto che, per fortuna, il testo è stato corretto ed oggi si parla di Senato della Repubblica. Credo che, di fronte alla piega e ai rischi di un’involuzione della regola democratica, che appartiene alle componenti della convivenza contemporanea – appunto la democrazia massificata – la grande sfida che noi avevamo di fronte era da giocare su altro terreno, vale a dire l’ambito proprio di un Senato delle garanzie.
Diceva bene prima il collega: la democrazia è anche teoria e pratica della limitazione del potere. Questo è il problema della civiltà contemporanea. Del resto, per lavorare ad una prospettiva delle autonomie, nel nostro ordinamento esistono istituzioni già preposte a questo fine.
C’è un altro tema che mi inquieta, che mi suscita interrogativi dirimenti: il nesso che lega rappresentanza e democrazia perché nel complesso vedo – sia pur senza drammatizzare – un rischio di involuzione, laddove constato l’esercizio di un ruolo improprio da parte del Governo. Non appartiene alla tradizione liberal-democratica il fatto che il Governo si faccia promotore di leggi costituzionali, né appartiene alla tradizione liberal-democratica il fatto che il Governo imponga – perché questo è il dato vero – un testo alla Commissione.
Poste queste premesse, sono anch’io del tutto convinto della necessità di procedere ad un superamento del bicameralismo paritario e simmetrico. Non mi convince affatto, invece, la prospettiva dell’abolizione tout court del bicameralismo.
Di fatto come nasce questo dibattito? Nasce sulla base di una distorsione prospettica. Da un lato, c’è la motivazione della riduzione dei costi, che certamente è un problema; dall’altro, c’è la motivazione dello snellimento delle procedure, anche se da questo punto di vista i dati statistici che riscontro dagli elaborati del nostro Servizio studi ci dicono che la cosiddetta navetta risulta operante per il 3,5 per cento dei procedimenti legislativi e che il tempo di conversione dei decreti e di approvazione delle norme di legge sta perfettamente nella media europea.
Si determina qui allora un’ulteriore distorsione che mi preme sottolineare. Come ho detto, non sono un esperto di diritto costituzionale e faccio fatica ad entrare nella microfisica delle norme, ma mi pare di poter dire che la radice della crisi è dei partiti e nei partiti. (Applausi dal Gruppo M5S). La nostra è una crisi delle istituzioni perché è una crisi delle modalità di formazione della volontà attraverso la mediazione dei partiti. È una crisi che investe le istituzioni, ma è una crisi derivata, che procede dalla deriva che la Repubblica dei partiti ha, appunto, imboccato.
Non posso infingere a me stesso, perché l’onestà intellettuale non è un optional: certamente la Commissione ha apportato modifiche significative e positive ed ha acquisito approdi che certamente posso condividere. Vorrei citare qui alcune di queste modifiche.
Innanzitutto, la riduzione del numero dei senatori: era una proposta che all’inizio, con alcuni colleghi, avevamo avanzato e che era stata guardata con sospetto: prendo atto positivamente che a questo approdo si è pervenuti.
Tra le modifiche cito poi l’embrione di uno statuto delle opposizioni, l’abolizione del CNEL e la determinazione di modalità di effettuazione di referendum, la cui validità va rapportata al numero dei votanti alle ultime consultazioni elettorali.
Proviamo a pensare quale evoluzione avrebbe avuto la storia d’Italia – non credo di esagerare dicendo la storia d’Italia – se queste norme fossero state adottate in precedenza. La storia d’Italia sarebbe cambiata e sarebbero cambiate la stessa identità e la stessa configurazione del nostro sistema politico. Riconosco, da già sindaco che, rispetto ad una proposta iniziale di neoaccentramento statalistico e di riduzione delle autonomie regionali, ha certamente guadagnato dal lavoro della Commissione il sistema ed è stato valorizzato in modo migliore il ruolo delle autonomie. Tutto questo mi soddisfa.
Esistono, però, in questo testo al nostro esame aspetti che invece non posso condividere. Innanzitutto la mancata elezione dei senatori. Nessuno, anche tra i colleghi più pacati ed avveduti del mio Gruppo parlamentare, ha ancora offerto a me una risposta adeguata ad un interrogativo che vado suscitando: che cosa avrebbe ostato, nel momento in cui si eleggono i consiglieri regionali, a che fosse il popolo a decidere quali consiglieri regionali potessero svolgere la funzione appunto di senatori? Peraltro, come è pensabile un Senato non elettivo rispetto ad un Senato della Repubblica che detiene prerogative in materia costituzionale ed elettorale? (Applausi dal Gruppo M5S). Questo contrasta con qualsiasi orientamento di ispirazione liberaldemocratica.
Ancora, le materie di interesse bicamerale: se è vero che c’è un problema che costituisce il fulcro della crisi della democrazia di massa – come Tocqueville ci ha insegnato – per quale ragione escludere dalla competenza e dall’interesse bicamerale i grandi temi della libertà religiosa, della bioetica, dei diritti civili, della tutela delle minoranze linguistiche, ossia quel sistema di garanzie che costituisce il fondamento della regola e del principio democratico? Proviamo ad immaginare una maggioranza eletta con un sistema ultramaggioritario che decide, da un lato, la legittimazione dell’eutanasia per i bambini e, dall’altro, l’abolizione tout court della legge n. 194, a seconda degli orientamenti politici. È pensabile che non ci sia nel nostro ordinamento una istituzione che funzioni sulla base di una elezione proporzionale in termini di garanzia ed equilibrio?
Ancora, l’elezione del Presidente della Repubblica è un tema cruciale, tenendo conto del presidenzialismo strisciante che ha caratterizzato gli ultimi anni della vicenda del nostro Parlamento. Se non si amplia la platea dei grandi elettori o non si diminuisce il numero dei parlamentari, si arriva al paradosso di un segretario di partito – oggi del mio partito, domani di un altro partito – che contemporaneamente è Presidente del Consiglio e in qualche misura dispone della possibilità dell’elezione del Presidente della Repubblica, cui poi compete la scelta di una quota rilevante di giudici della Corte costituzionale.
Il numero dei deputati: che cosa osta a proporre un numero di deputati che stia dentro la media europea? Per l’Italia si tratterrebbe grosso modo di 500 deputati. Qual è la ragione di principio? Capisco i problemi di utilità pratica affinché questo procedimento legislativo giunga a compimento, ma che cosa osta in linea di principio affrontare questo problema, così come il problema delle immunità che va ricondotta al tema dell’insindacabilità?
E ancora, cito la modalità di elezione dei consiglieri regionali, laddove ritorna il tema di una esorbitante presenza dei partiti. È tempo di restituire alla politica la sua ambizione e la sua dignità ed è tempo – come diceva uno dei miei maestri, Mino Martinazzoli – di restituire i partiti al loro ruolo, al di là di ogni esorbitante invasione di campo. (Applausi dal Gruppo M5Se del senatore Di Maggio).
Del resto, se qualcuno avesse proposto – ma vedo che un collega che ormai si erge al ruolo di grande inquisitore lo aveva fatto – il Bundesrat, ero prontissimo a sostenerlo. In Francia la platea elettorale è di circa 195.000 elettori e la legge francese rende ormai incompatibile il ruolo di parlamentare, di sindaco e di esponente regionale.
Infine, l’ultimo interrogativo: il nesso tra l’Italicum e la riforma del Senato. (Applausi dal Gruppo M5S). È un nesso politico, è un nesso costituzionale, è un nesso ordinamentale, perché, a maggior ragione, il Senato delle garanzie è un’esigenza indifferibile in presenza di una legge maggioritaria che, allo stato attuale, addirittura assegna il 18 per cento a chi ottiene il 37 per cento, cioè più della metà dei consensi ottenuti. Credo che siano interrogativi legittimi quelli che io sostengo.
Infine, la mia formazione politica raramente mi ha portato a contrastare o a manifestare dissenso o contrasto rispetto alle posizioni del mio partito. Questo non costituisce per me un problema di facile soluzione, ma ad un giornalista che l’altro giorno mi chiedeva qual è la risposta che do al fatto che, con questa posizione, termino la mia carriera politica, ho detto che ho trovato la risposta (sono un cattolico praticante) nella lettera di san Paolo a Timoteo della liturgia della settimana scorsa: «Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la corsa ma, vivaddio, ho conservato la fede». (Applausi dai Gruppi M5S e Misto-SEL e delle senatrici Albano, Dirindin e Pelino).
* Ex-sindaco di Brescia e senatore Pd