POI, un giorno, sarei diventata giornalista.
Ma allora, mentre uno ad uno scendevo con la mamma i dieci ripidissimi gradini che sembravano andare verso le viscere lontane della mia città, non potevo certo immaginare che, passati esattamente settant’anni, sarei tornata a rivedere quel luogo, davanti alla basilica di San Lorenzo, perché da lì cominciò anche una fase nuova della mia vita di bambina figlia di mamma ebrea, nel cuore della guerra più crudele. Fu proprio lì che, comprati degli scarponcelli un po’ di cuoio un po’ di cartone, la mamma mi baciò per scomparire poco dopo nella rete di eroici cittadini che la protessero e la nascosero per tanti mesi.
Sono tornata per ritrovare le immagini, forse la luce e quel grigio freddo dell’inverno che sento ancora dentro di me mentre mi sforzo di andare all’indietro nel tempo, una sorta di inchiesta sulla vita di allora, sospesa tra i silenzi degli adulti e il terrore di alcune parole come “morte”, “rastrellamento”, il suono delle sirene, le esplosioni, le fughe nelle strade e nei boschi, le immagini degli uomini chini sotto i fucili tedeschi a scavare le buche per le mine che dovevano distruggere la nostra città. E poi il rumore degli scarponi dell’esercito invasore finalmente in fuga, ma per questo sempre più ossessivamente spietato.
RUMORI e suoni, ordini gridati, che nessuno, tra coloro che sono scampati e hanno avuto il dono della libertà, potrà mai cancellare da quel luogo interiore dove per tanto tempo hanno albergato. Un’eco si è fermata nell’aria attorno a ciascuno di noi, immobile, per ricordarci che non si deve mai dimenticare.
Settant’anni fa Firenze visse la pagina più grande della sua storia: alla inimmaginabile crudeltà della repressione nazifascista rispose con il coraggio e l’eroismo di figli del popolo, intellettuali, professionisti, artigiani, commercianti, di donne straordinarie che sfidarono i carnefici con la forza che solo la fede nella libertà può dare, nei momenti estremi.
Vale la pena di scavare ancora. Di raccontare, con spirito di umiltà e il tremore dovuti al riconoscimento della inevitabile frammentarietà e piccolezza della parte vissuta, ricordando anche momenti privati di quella che fu la nostra vita mentre Firenze si accingeva a diventare la città descritta da Carlo Levi, dalle sue stanze di piazza Pitti: “Firenze, questa città granducale addormentata nell’ombra pigra dei suoi palazzi gloriosi, mostrava al mondo, prima fra le città italiane, che cosa fosse la guerra di popolo. Una passione comune empiva i cuori di tutti, una speranza di libertà nata nel più profondo della disperazione, un senso spontaneo di sdegno e di naturale dignità contro la sadica barbarie”.
Inverno 1944. Da molti mesi ormai Firenze è prigioniera, occupata. Era l’11 settembre del ‘43 quando una colonna tedesca entrò, senza trovare resistenza organizzata. Ma sin da allora gli antifascisti fiorentini avevano cominciato a incontrarsi nella casa di Carlo Furno sul viale Matteotti dove si tenne, lì e nello studio di Enzo Enriques Agnoletti, il primo congresso nazionale del Partito d’Azione: i capi fiorentini insieme a quelli nazionali, Ferruccio Parri, Emilio Lussu, Leone Ginzburg, Riccardo Lombardi. Prove di collaborazione fra socialisti, azionisti, comunisti. Sfoceranno in quell’inizio di settembre nel Comitato di Liberazione nazionale e a Firenze nel Ctln, il Comitato toscano.
È nell’autunno del ‘43, mentre cominciano anche da noi le razzie e la caccia agli ebrei, che Giorgio Bassani, rifugiatosi a Firenze e attivo nella resistenza, consegna a mio padre una carta d’identità falsa per mia madre. “Bassani – scrisse mio padre anni dopo – mi procurò alcuni documenti d’emergenza e un giorno, in gran segretezza, mi avvertì che il Gabinetto Vieusseux costituiva uno dei luoghi dove si incontravano e scambiavano messaggi i resistenti. Immagino che agisse per mandato e comunque per tastare il terreno”.
Ecco dunque svelato il segreto di quella carta falsa che salva la mamma e che tengo ancora oggi a testimonianza vivente di quel tempo di morte. Da qualche anno a mio padre è stata affidata la biblioteca la cui direzione Eugenio Montale ha dovuto abbandonare per la sua dichiarata militanza antifascista. Mio padre vive questo periodo da custode laico di tutti i libri che l’incarico gli affida. E custode di quella cultura europea e americana che il fascismo ha messo al bando e che lui ha tenacemente continuato a diffondere, fin quando non è stata sospesa anch’essa, nella rivista “Letteratura”. Un mondo che sfidava il fascismo con la forza dell’arte e della cultura, che apre l’orizzonte dei giovani ai giorni che verranno, che consola e dona speranza a chi riesce a riceverla nelle carceri dove il regime raramente la lascia arrivare. Montale e Gadda, i due giganti, il più grande poeta e il più grande narratore, che frequentano le case dove via via abitiamo, scappando da quella che ci pare ormai insicura, entrambi pazienti e persino giocherelloni con la figlia dell’amico e editore.
Più si avvicina l’inverno, più difficile diventa la quotidianità anche per noi: un giorno nel giardino di una casa di via Bolognese nella quale abitammo temporaneamente, aiutai mio padre a scavare una buca e a bruciare tutte le carte compromettenti degli scrittori e dei poeti che aveva pubblicato e con cui era stato in rapporto per le riviste “Solaria” e “Letteratura”. Mi sembrava un gioco, quel grande falò che si portò via lettere, indirizzi, manoscritti che oggi sarebbero preziosi a ricostruire la storia di quella “resistenza” tutta culturale ma che allora potevano costituire la “prova”, la conferma che portavano all’arresto o alla morte.
Un giorno d’autunno uno degli “amici” denunciò la mamma ebrea.
Così anni dopo mi raccontò mio padre. “Sapevano tutto di lei, anche che era cugina di Nello Rosselli”. Non mi volle dire chi fu il traditore fin quando non fu sul letto di morte, il 18 febbraio del 1984, mentre era sindaco di Firenze. Farfugliava quel nome e io facevo fatica a capirlo. Poi capii. E mi capita spesso di pensare come debba esser stato importante per lui e come sia stato anche doloroso, conservare il segreto per tutta la vita.
Intanto Firenze ormai era sotto l’incubo dei bombardamenti, cominciati il 25 settembre, e delle prime rappresaglie contro gli ebrei. Tremendi furono i primi arresti di donne e bambini ebrei che si erano rifugiati nel convento del Carmine e che furono deportati il 30 novembre ‘43 dopo lunghi giorni di brutali sevizie.
Ecco perché ai primi di gennaio era stato deciso che la mamma doveva nascondersi e anche io sparire. Fu un lampo. Lei mi disse che andavo a trovare il mio amico di sempre, in un luogo bellissimo e che presto ci saremmo riviste. Ma appena risalimmo i dieci scalini di piazza San Lorenzo io sentii che c’era qualcosa di gravemente minaccioso, magari di definitivo, in quella situazione, sapevo che le scarpe nuove mi avrebbero portato lontano dalla mamma e io non ero mai stata senza di lei. Avevo una piccola borsa con pochi indumenti. Ci avviammo verso l’Accademia di Belle Arti dove insegnava Giovanni Colacicchi, il pittore a cui venivo affidata, un uomo generosissimo, col sorriso più dolce che abbia mai visto. Mi prese in collo e in un attimo la mamma non c’era più e io comprimevo il pianto, un dolore straziante e silenzioso.
Così ci separammo, io verso una grande casa di campagna dalle parti di Vallombrosa, lei verso degli eroici cittadini di Oltrarno, in via Maffia, che la tennero nascosta per molti mesi.
Molti fiorentini pensarono in quell’inverno del ‘44 che sarebbe stato opportuno, anche per sfuggire ai bombardamenti che oramai colpivano almeno una volta al mese e alla fame sfollare verso la campagna. Una scelta che durò pochi mesi e che verso la primavera inoltrata, fu abbandonata. Si trattava oramai di decidere se aspettare l’arrivo del fronte nella città sotto le bombe o in quella campagna oramai percorsa metro per metro, casolare dopo casolare, dai soldati tedeschi aiutati dai fascisti che davano la caccia a soldati italiani e stranieri sbandati e in fuga, ebrei nascosti, membri della resistenza, partigiani. Nella grande casa di campagna dove arrivai quella sera di gennaio, trovai il calore e quasi la serenità di una colonia di amici, ferrei antifascisti, che dicevano parole fra loro comprese, spesso pensieri e giudizi appena accennati. La casa era di proprietà di Nicky Mariano, la grande amica di Bernard Berenson, lo studioso d’arte americano che, prima della guerra, passava lì le sue vacanze. C’era Flavia Colacicchi, pittrice anche lei, padrona di casa, che alternava le puntate nei boschi per rifocillare i partigiani che si stavano organizzando alla cura dei suoi “ospiti”: Adriana Pincherle, sorella di Alberto Moravia, Onofrio Martinelli, il pittore della malinconia della campagna, noi bambini, prigionieri russi in fuga. Quanto imparai da quei giorni in montagna: i miei pensieri di bambina a un certo momento si bloccavano e subito vedevo da un sorta di terrazza verso la valle la piana di Firenze coperta dal fumo delle bombe alleate. Crescevo nella dolorosa assenza dei genitori, ma crescevo e non so come né quando di preciso ma la Pincherle riuscì a prepararmi all’esame che detti da privatista in una scuola di Vallombrosa o della Consuma. Arrivammo a piedi per un viottolo infestato dalle vipere, saltando da un sasso all’altro. Le maestre non mi chiesero perché non fossi andata a scuola, non lo facevano, capivano e tacevano. Io ero l’unica che non sapeva nemmeno come fossero fatti i banchi, o una lavagna, o come fosse bello avere dei compagni. Ci volle tempo perché qualcuno mi spiegasse che ero diversa, figlia di una ebrea. Ci vollero anni perché si rompesse quel muro di timidezza e di solitudine. Mi fecero scrivere un tema intitolato “La mia mamma”. Non so ovviamente oggi cosa scrissi, ma ricordo due maestre che piangevano e mi accarezzavano. Ero stata promossa.
Andavamo spesso insieme a Flavia, verso il passo della Consuma da certi contadini a comprare ricotta e mele. Era una festa, c’erano tanti bambini della nostra età e ricordo una grande cucina e un grande tavolo con sopra le mele. Era come se la guerra lì non solo non fosse arrivata, ma non dovesse mai arrivare. Povera gente!Venne agosto e un giorno maledetto i tedeschi in rotta li uccisero tutti, uomini donne e i bambini, 19 morti, e l’ultimo bambino, raccontano, fu finito col calcio del fucile, sotto l’acquaio dove si era rannicchiato.
Poi un giorno, mentre giocavamo in uno spazio dietro la casa che in altri tempi era stato un campo da tennis, fummo interrotti da spari così vicini che le pallottole cominciarono a pioverci attorno. La nostra casa, il nostro “rifugio” era ormai diventata una sorta di “fronte” di guerra. Alla Secchieta, nei boschi che segnavano il confine dei nostri giochi e delle passeggiate, le prime formazioni partigiane combattevano contro la Wehrmacht. Oggi rimane una lapide a ricordo di quel primo scontro dove persero la vita undici uomini: “A primavera del quarantaquattro forti reparti nemici attaccato il piccolo presidio di Secchieta lo sopraffacevano in combattimento nell’avversa giornata caddero su questa petraia undici uomini del presidio. Anche per noi la loro morte. Anche a noi il loro sacrificio”.
Flavia riuscì a portare in ospedale un partigiano ferito gravemente, sperando di salvarlo. Ma sapemmo poco dopo che anche lui era morto. Intorno a noi si stendeva ormai un lungo orizzonte di sangue. Quando riuscimmo a trovare un camioncino, ci salimmo sopra con i nostri materassi, l’arco e le frecce dei nostri giochi, i pennelli e le tele, e partimmo per la città. Dormimmo per terra in una località chiamata la Rimessa insieme a camionisti e barrocciai. Su Pontassieve, in un tratto molto vicino alla ferrovia, scese a picco un aereo alleato, talmente basso sulle nostre teste che io credo ancora di aver visto il volto del pilota. Non credo, lo so.
Era maggio, l’Arno scorreva al nostro fianco. Tornavamo a Firenze per vivere nelle nostre case, nelle nostre famiglie e nelle nostre strade i giorni dell’ultima battaglia per la libertà. Tornavamo ormai tanto cresciuti, noi che eravamo partiti bambini. Gli scarponi comprati a San Lorenzo si erano disfatti nella neve.
E comunque, ormai, non mi stavano più. ( 1continua)
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