Brutta gatta da pelare per Giorgio Napolitano, con un mandato agli sgoccioli e la necessità di far presto, prestissimo, prima che borse terremotate e spread in decollo verticale affossino quel che resta dell’economia italiana. C’è da augurarsi che il vecchio presidente dimostri più prontezza e acume dei dirigenti del Pd nella loro fallimentare campagna elettorale. Perché oggi possiamo dirlo: quella campagna è stata un fallimento. Ma è inutile, oltre che ingeneroso, gettare oggi la croce su Bersani.
Perché a molti era piaciuta quella sua concretezza e quel suo rifiuto di “raccontare favole agli italiani”: finalmente qualcuno che parlava chiaro, senza indorare la pillola, e dimostrava di considerare gli elettori cittadini adulti e pensanti. Non ha funzionato, e con ciò non si vuole dire che gli italiani non siano adulti e pensanti. Si vuole dire, però, che in un paese prostrato dalla crisi e avvelenato dal berlusconismo le dinamiche elettorali obbediscono a leggi diverse da quelle che regolano la normale dialettica democratica. E questo un dirigente politico deve saperlo, è il suo mestiere. Se non lo sa provoca il disastro. Come è puntualmente accaduto.
E adesso? L’ipotesi di tornare subito alle urne appare improponibile. Sia perché la legge elettorale ha dimostrato tutta la sua perfidia, sia perché a metà aprile bisognerà eleggere il nuovo capo dello Stato, e entro quella scadenza si dovrà avere un governo.
E il nodo è proprio questo: il governo. Dal Pd non si può prescindere, visto che ha vinto il premio di maggioranza alla Camera. Ma il Senato è una lotteria dove può accadere di tutto. Diciamo subito che un governissimo Pd-Pdl appare improponibile. Berlusconi è impresentabile in Europa e nel mondo, e il suo programma è inconciliabile con quello di Bersani. Un accordo con lui sarebbe devastante per i democratici. Molto meglio trattare con il movimento 5 stelle, che però è ancora un oggetto misterioso. E’ probabile che, come dice Enrico Letta, i grillini siano meglio di Grillo, ma l’assioma è tutto da dimostrare.
Intanto bisogna vedere che assetto istituzionale si daranno alla Camera e al Senato: dovranno eleggere i capigruppo, che saranno gli interlocutori del Quirinale, e probabilmente anche quelli delle altre forze politiche, visto che Grillo non è in Parlamento. Chi saranno e quale spazio di manovra avranno questi capigruppo? Perché se ogni minima decisione dovesse essere presa previa consultazione in rete con tutti gli iscritti al movimento ci vorrebbero mesi anche per aprire una finestra.
Bisogna dire che in Sicilia non sta andando così, e dunque si può sperare. Ma lo stesso M5S non sembra pensarsi come una forza di governo. Nelle interviste giustamente trionfanti del dopo voto i neoeletti assicuravano che non verranno da loro problemi per la governabilità, perché voteranno tutte le proposte coerenti con il programma del Movimento. Lodevole proposito, che però si addice ad un piccolo partito, non al gigante che si ritrovano per le mani. A loro spetta anche farne, di proposte. Gli tocca essere protagonisti, non semplici spettatori. E poi il governo si regge su un voto di fiducia, al quale si arriva dopo una trattativa sul programma e sui ministri. Sono pronti per questo? Tanti voti significano tante responsabilità. Significano dover mettere la faccia in quel che accadrà da oggi in poi. Significano abbandonare le cose che non si possono fare per concentrarsi su quel che si può fare, con pazienza e realismo. Lo faranno? Chi vivrà vedrà.
Al Pd spetta il compito, non facile, di assecondare un simile processo. Ed è difficile, oggi, immaginare come. Forse Bersani potrebbe non rivendicare per sé la premiership, forse si potrebbe pensare ad un governo con compiti limitati ma incisivi, tanto per tastare il terreno e capire quanto potrà durare una legislatura nata così male. E qui la palla torna a Napolitano. Finora ha dimostrato di saper dipanare le matasse ingarbugliate. Speriamo che ci riesca anche questa volta. Altrimenti, poveri noi.
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