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23 Novembre 2011

Gustavo Zagrebelsky Presidente Onorario Libertà e Giustizia

Esce per Cortina editore, l’ultimo saggio della filosofa Roberta De Monticelli, dedicato all’impegno civile. La recensione di Gustavo Zagrebelsky su Repubblica: perché gli ideali non sono assoluti ma figli di un’epoca

Si può dissentire radicalmente sulle premesse e consentire pienamente sulle conclusioni? È la domanda che ci si pone al termine della lettura dell´ultimo, profondo, appassionato, angosciato ma non rassegnato libro di Roberta De Monticelli, La questione civile – Sul buon uso dell´indignazione (Raffaello Cortina Editore).
Il tema è la giustizia, massima virtù sociale; lo scopo è il risveglio alla giustizia attraverso “esercizi di disgusto”. L´impianto è filosofico. Il discorso si svolge da Platone e Aristotele, indugia su quello che sembra il preferito, Immanuel Kant, per arrivare a Simone Weil e a Bobbio. Ma, la riflessione spazia: antropologia, psicologia, teologia, giurisprudenza, letteratura. Tutto può essere messo a frutto e fatto reagire, al di sopra delle divisioni disciplinari. Trattandosi di filosofia pratica, cioè orientata all´azione sul suo oggetto – la giustizia –, inevitabile è incontrare di continuo le brutture, le oscenità, le meschinità, gli arrivismi, l´ipocrisia, l´illegalità, la corruzione, le prepotenze, le viltà e il servilismo, cioè la catastrofe etica della nostra società.
Il libro, con una certa sorpresa del lettore, non inizia dalla giustizia. Vi arriva attraverso la bellezza. Bellezza e giustizia: che rapporto c´è? Dicendo bellezza, non si deve pensare a estetismo, snobismo, collezionismo d´arte e cose di questo genere. Se bellezza è armonia e proporzione dei rapporti – di elementi figurativi, architettonici, poetici e musicali, e anche sociali – allora possiamo dire che la bellezza è forma visibile della giustizia. Il rapporto è stretto, inscindibile. Vale l´eterna massima della filosofia scolastica: iustum, bonum, verum et pulchrum convertuntur. Queste qualità dell´esistenza vivono l´una nell´altra. Non occorre intuizione metafisica per capirne i nessi. Risultano ancora più chiari rovesciando il positivo in negativo: l´ingiustizia è cattiva; il cattivo è falso; il falso è brutto. Si può arrivare alla giustizia a partire dalla bellezza, ma si sarebbe potuto anche dal bonum o dal verum. A partire da uno, si arriva agli altri.
Fin qui, tutto bene. Il passo successivo è da discutere. Giustizia, bontà, verità e bellezza sono “valori”, “cose che valgono”, non in termini economici, (non c´è un mercato dei valori secondo la legge della domanda e dell´offerta), ma in termini morali. Sono il lato positivo, prezioso, della vita. A meno di pervertimento in bruta animalità, dove vige il fatto compiuto, cioè la “giustizia del più forte”, non ne possiamo fare a meno. Potremmo perfino dire che li chiamiamo valori, ma sono necessità, secondo il motto di Kant: se non c´è posto per la giustizia sulla terra, non ha senso la vita degli uomini. De Monticelli dà grande importanza alla questione del fondamento. È convinta che i valori siano “dati”, non perché li si possa constatare e ammirare in sé e per sé. Nel teatro greco, per esempio, “La Pace” si presentava come una fanciulla, avvolta in un peplo trasparente, e tutti esclamavano: “come è bella!”. Di lei si poteva dire: “Come è bella!” perché la bellezza le era incorporata e gli spettatori ne facevano esperienza. Dunque, “i fatti stessi si qualificano come beni e come mali” (belli o brutti, giusti o ingiusti, ecc.) e a noi non resta che prendere atto del loro valore, come constatazione. Ne è convinta De Monticelli e chi, come Platone, crede che esista “la bellezza” che si riflette in “le cose belle”. Se fosse così, sarebbe possibile fondare la morale in termini oggettivi: le cose belle sono belle perché portano in sé la bellezza, non perché l´attribuiamo loro, secondo la nostra concezione. Insomma: è bello ciò che è bello, non ciò che piace: piace perché è bello, non viceversa (lo stesso, per gli altri valori).
Come possiamo non insorgere – leggiamo nel libro – di fronte alle casette a schiera che deturpano le colline senesi dipinte da Simone Martini? Non è questo, oggettivamente, un insulto al bello, e dirlo non è forse una constatazione di fatto? “Nerone era crudele”, non è la stessa cosa? Andiamo oltre: Adolf Hitler era un essere degenerato. Chi non sarebbe d´accordo? Dunque il brutto è incorporato nelle casette a schiera del Senese; la crudeltà, in Nerone; la degenerazione, in Hitler. Ripeto: chi non sarebbe d´accordo? Ma perché siamo d´accordo? Sono “le cose” (le villette, Nerone, Hitler) che parlano a noi, o siamo noi che parliamo a e di loro?
Siamo al problema del fondamento. Al “monismo” essenzialista – fatti e valori sono tutt´uno – si oppone la separazione “dualista”: ciò che è non è detto che debba o non debba essere. Un muro separa i fatti dai valori: gli uni non “convertuntur” affatto negli altri. Riconsideriamo l´esempio estremo di Hitler. Ora (e, purtroppo, nemmeno da tutti) si ritiene sia stato uno dei massimi flagelli dell´umanità, ma non allora. C´era chi lo riteneva un nuovo messia, perfino tra gli uomini di chiesa. Per milioni di persone, in Germania e altrove, era il salvatore della civiltà europea contro la barbarie asiatica, impersonata dal comunismo sovietico. In nome del “valore” superiore della civiltà occidentale, si è stati perfino disposti a chiudere gli occhi davanti alla shoah: evidentemente, la difesa della vita degli ebrei si riteneva un non-valore, o un valore minore, di fronte ad altri valori, come il capitalismo o la religione cristiana. C´era un valore assoluto, obiettivo, e, se sì, qual era? No, non c´era. C´era invece una lotta mortale tra valori soggettivi e relativi, con le rispettive armate schierate su fronti opposti. Noi sappiamo, ora, come sarebbe stato giusto, buono, vero, e bello schierarsi. Ma, come osservatori, dobbiamo ammettere che entrambe le parti, allora, ritenevano di combattere la buona battaglia e che ciascuna delle due vedeva incorporate nelle armi dell´altra il male, e nelle proprie il bene.
Dunque, è più probabile che la condizione esistenziale degli esseri umani non sia quella assunta da De Monticelli. Per lei, il valore delle cose, positivo o negativo, si manifesta nella loro esistenza. Dunque la precede. Per chi non pensa metafisicamente, invece, è l´esistenza che precede i valori. Il che è come dire ch´essi non sono dati ma sono i viventi a doverli dare; vengono dalla nostra libertà e responsabilità e non li troveremo fuori, ma in noi.
Sappiamo che entrambe le posizioni, monismo e dualismo, sono aperte a grandi rischi. Non sono quindi i rischi, gli argomenti per propendere per l´uno o per l´altro. La metafisica dei valori espone al dogmatismo, quando la loro gestione finisca, come è possibile, nelle mani di autorità etiche: stato, partito-chiesa, chiesa. L´anti-metafisica espone all´indifferenza o al soggettivismo estremo e distruttivo, quando prevale l´idea che le questioni di valore non abbiano senso o siano affari da gestire ciascuno per sé. Piuttosto, riprendendo l´interrogativo iniziale, che è quello davvero importante per il vivere comune, possiamo dire che, quali che siano le opinioni circa il fondamento, sui contenuti si può perfettamente convenire. Gli uni riterranno di andar scoprendo valori; gli altri, di andar creandoli. Da punti di partenza diversi si può giungere alla medesima meta e, cosa consolante, si può, anzi si deve, operare insieme. A condizione di isolare le ali estreme: i dogmatici e i nichilisti. Per riprendere il titolo del libro di De Monticelli: a queste condizioni, far buon uso della comune indignazione è possibile.

Nato a San Germano Chisone (To) il 1° giugno 1943. Laureato a Torino, Facoltà di Giurisprudenza, nel 1966, in diritto costituzionale, col professor Leopoldo Elia.

  • Professore di diritto costituzionale e diritto costituzionale comparato alla Facoltà di Giurisprudenza e alla Facoltà di Scienze politiche dell’Università di Sassari dal 1969 a 1975.
  • Professore di diritto costituzionale comparato alla Facoltà di scienze politiche dell’Università di Torino dal 1975.
  • Professore di diritto costituzionale alla Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Torino, dal 1980 al 1995.

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