“La dignità del lavoro, tra incertezze e insicurezze”

30 Apr 2023

Niccolò Nisivoccia Consiglio di Presidenza Libertà e Giustizia

Oggi in Italia il lavoro continua a mancare, continua a non essere abbastanza, non è abbastanza per tutti; e si continua a morire sia del lavoro che non c’è, che manca, sia di quello che c’è.

Il fatto che si muoia di lavoro, anche quando se ne ha uno, è sotto gli occhi di tutti. Sono di questi giorni gli ultimi casi noti: un operaio a Milano, un agricoltore a Sciacca, nella provincia di Agrigento. Ma i casi sono quotidiani, e perfino di più: la media è di tre morti ogni giorno. Gli ultimi dati riportati dicono che i morti di lavoro, in Italia, nel 2022 sono stati 1090 e gli infortuni circa settecentomila; che il costo dell’insicurezza nei cantieri e nelle fabbriche si aggira fra il 3,6 e il 6% del Pil; e che il 90% degli incidenti avviene nell’ambito delle piccole e medie imprese, che costituiscono l’80% del nostro tessuto economico.

“Lavorare uccide”, insomma (era il titolo di un libro molto ben fatto e documentato di Marco Rovelli, pubblicato quindici anni fa ma tuttora attualissimo): ed è ancora più paradossale se pensiamo che il lavoro è riconosciuto esplicitamente dalla Costituzione come fondamento della nostra Repubblica. Lo afferma l’articolo 1: “L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro”. E lo ribadisce, in altro modo, l’articolo 35: “La Repubblica tutela il lavoro in tutte le forme e applicazioni”.

Ma il problema non è solo quello della sicurezza, è anche quello della dignità. Non basta avere un lavoro, occorre che sia anche dignitoso. E del resto anche questo è un principio che la Costituzione afferma espressamente, nel suo articolo 36: “Il lavoratore ha diritto a una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla sua famiglia una esistenza libera e dignitosa”. E poi anche nell’articolo 41: “L’iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”. Quante volte, invece, il lavoro è tale da escludere la dignità? Succede tutte le volte in cui, in aperto contrasto con i princìpi affermati dalla Costituzione, non è retribuito o è retribuito male, e perciò consente a malapena di sopravvivere.

Non a caso la diffusione e la crescita della povertà assoluta, insieme a tutte le disuguaglianze sociali ed economiche che ne derivano, costituiscono a loro volta un dato oggettivo non più solo nei Paesi che siamo abituati a considerare poveri, ma ormai e sempre di più anche in Italia. Gli ultimi Rapporti Istat e Svimez, tanto per citare due fra le tante fonti possibili, danno atto che in Italia la povertà assoluta riguarda attualmente circa due milioni di famiglie, corrispondenti a più di cinque milioni e mezzo di persone. È un problema molto grave, perché la povertà assoluta è una spirale, non una condizione statica, essendo sempre accompagnata dalla paura, quando se ne venga travolti, di non poter liberarsene più: e questo genera l’avvicinamento ai circuiti illegali, alla criminalità organizzata, alle morse del nero. La povertà, in ultima analisi, può condurre verso la marginalità sociale e rischia di tramutarsi, come per effetto di un circolo vizioso, perfino in qualcosa che preferiamo non vedere, o respingere: come se non vedere un problema potesse eliminarlo o risolverlo (alcuni parlano addirittura di “paura dei poveri”, di “aporofobia”).

Ma ancora: il lavoro non è dignitoso non solo quando non è retribuito o è retribuito male ma anche quando assorba completamente gli spazi della vita, come se la vita non potesse più esistere al di fuori del lavoro stesso, dei suoi tempi, dei suoi ritmi, delle sue esigenze. Sempre di più infatti si parla di “decrescita”, come di una necessità sia ecologica che sociale: ecologica, perché legata all’esaurimento delle risorse del pianeta; sociale, perché la vita non si esaurisce nei suoi bisogni essenziali, non può prescindere dalla coltivazione di sé e dalla relazione con gli altri. Una vita degna ha bisogno, per essere tale, di uscire dall’individualismo, dalla solitudine, dall’isolamento, per aprirsi all’inclusione, alla collettività, alla socialità. Per non parlare dei casi in cui a risultare violata è la stessa libertà: e basti pensare, ad esempio, ai fenomeni del caporalato o della precarietà estremizzata.

Infine (o forse prima di tutto) il problema è quello del mancato lavoro, e questo è ovvio: perché la premessa di un lavoro sicuro e dignitoso è che un lavoro prima di tutto esista. La Costituzione lo configura come un diritto (nel suo articolo 4): “La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo tale diritto”. E si preoccupa anche di aggiungere che, in tutti i casi in cui tale diritto non possa essere concretamente esercitato o non possa esserlo più (e cioè nei casi di infortunio, malattia, invalidità, vecchiaia e disoccupazione involontaria), ai cittadini debbano comunque essere assicurati “mezzi adeguati alle loro esigenze di vita” (articolo 38).

Se una vita può essere priva di dignità anche in presenza di un lavoro, a maggior ragione rischia di esserlo in sua assenza. Ed è anche di mancato lavoro che troppo spesso si muore: per fame, o per vergogna.

La festa del primo maggio, per avere un senso, dovrebbe servire a rinnovare la nostra consapevolezza dell’enormità di tutto ciò: per farne derivare, in tutti gli altri giorni dell’anno, comportamenti e politiche coerenti, capaci di restituire concretezza allo spirito della Costituzione.

Nato a Milano nel 1973. Avvocato e scrittore. Svolge attività di docenza presso l’Università degli Studi Milano e l’Università Cattolica del Sacro Cuore e di relatore in convegni e seminari.

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