Il Presidente ‘votato’

02 Feb 2022

Gustavo Zagrebelsky Presidente Onorario Libertà e Giustizia

Se le parole hanno un senso, e il senso deve essere rispettato, Sergio Mattarella è stato eletto nel 2015, ma non è stato ri-eletto nel 2022. È stato “votato”, ma non eletto di nuovo. Eleggere significa scegliere di propria volontà fra più opzioni quella che si ritiene migliore. Così il vocabolario. Se non ci sono più opzioni, se la scelta è apparente perché è tra il disastro e la salvezza, la salvezza non è un’opzione, è una necessità. Molti sono stati chiamati o, più o meno pateticamente, si sono proposti ma tutti inutilmente. Una barca di disperati sta per fare naufragio e compare la ciambella di salvataggio cui riescono ad aggrapparsi: diremmo che hanno scelto, hanno “eletto” il salvagente?

Onore, dunque al presidente Mattarella che si è prestato al salvataggio, ma la facciano finita. Lasciamo perdere le fantasie come, per esempio, quella di chi parla di segno di vitalità dal basso del Parlamento che si sarebbe ribellato ai giochi di Palazzo. Non è stata un’elezione ma il fallimento di coloro che avrebbero dovuto rappresentare la Nazione, come dice la Costituzione.

Rispettiamo, dunque, le parole e forse potremo vedere più chiara la realtà, al di là delle recriminazioni, accuse reciproche e perfino incredibili rivendicazioni di vittoria. La realtà sta tutta in una parola: “intestarsi”. Tutti i possibili candidati sono stati, come si usa dire, “bruciati” nel momento in cui sono apparsi sulla scena. Possiamo dire: proposta e bruciatura hanno fatto un tutt’ uno.

Ciò perché la posta in gioco della partita quirinalizia s’è dimostrata essere l’intestazione dell’elezione. I nomi, in fondo, contavano meno e, perciò, se n’è fatta una girandola, una quarantina tra quelli espliciti e quelli “coperti” che si sarebbero potuti tirare fuori dal cilindro al momento opportuno. Forse, anche se ci fosse stata in Parlamento una chiara maggioranza, il conflitto delle intestazioni ci sarebbe stato ugualmente, tra le sue componenti.

Ma, siccome una tale maggioranza non c’era, il caos totale è stato inevitabile. Altro che “sintesi”, “percorso condiviso”, “punti di equilibrio”, “tavoli”, “altissimi profili”, “kingmaker” e altri simili specchietti (per le allodole) e spacconate. L’intestatario, in caso di successo, avrebbe vinto un premio politico che gli altri non gli avrebbero potuto contestare. Un enorme plus-valore. Proprio per questo doveva fallire e così è stato. Egli avrebbe dimostrato la sua centralità in Parlamento, nel governo, nella coalizione e nello stesso suo partito.

Il voto a favore della rielezione del presidente Mattarella, invece, ha scontentato (quasi) nessuno perché ha evitato ogni altrui intestazione. Affinché nessuno vinca, meglio che perdano tutti: questa è stata la morale e, se è stata questa, nessuno avrebbe motivo di gioire. Per esempio, che cosa sono state le congratulazioni al momento della votazione, e il giubilo che abbiamo visto e che vedremo di nuovo tra qualche giorno, a Camere riunite plaudenti, sul volto di chi temeva di naufragare? Che cosa sono mai i sorrisi di soddisfazione durante la processione al Colle, svoltasi quasi come in un rito d’auto-umiliazione?

Stavano deponendo la propria impotenza ai piedi di chi generosamente, per spirito di servizio, ha assunto il peso del loro fallimento. In fondo, era largamente prevedibile. Politicantismo invece di politica. Se c’è politica, se cioè ci sono programmi, progetti, ideali, perfino ideologie; se cioè c’è qualcosa che va al di là dell’autoreferenzialità e che tiene a bada l’ego personale o di gruppo, allora sì, si può mediare, cercare insieme il meglio tra ciò che è possibile. In una parola, si può guardare in alto trovandovi soddisfazione anche, anzi perfino di più, quando si rinuncia a qualcosa di sé in vista di qualcosa di buono che può riguardare tutti o, almeno, molti.

Nel politicantismo prevalgono gli interessi particolari meschini, che difficilmente aggregano consensi, soprattutto quando c’è un solo “bene” da assegnare (il Quirinale), senza beni di consolazione da distribuire: se tutto a uno, niente agli altri. Il politicante non sa che farsene della politica, anzi la evita. Tutto, per lui, è tattica del giorno per giorno. Ma, viene il momento della verità in cui inevitabilmente ci si trova di fronte alla realtà. Questo giorno è già venuto due volte.

Se la prima volta, la rielezione del precedente presidente Napolitano, si poteva far finta di non vedere e considerarla un’eccezione, questa volta non può più essere così. Due volte dimostrano un malessere di fondo che testimonia un cambiamento della “costituzione materiale”. Un cambiamento, questo sì, davvero antipolitico. Le grandi decisioni sfuggono al Parlamento che ne è incapace. La sua incapacità finirà per sembrare inutilità. Perché partecipare anche solo con il voto a rituali lontani, per nulla attrattivi e privi di sostanza?

Ma, nei regimi in cui il Parlamento non c’è, è sospeso o è impotente, la democrazia se la svigna dalle parti di oligarchie e di tecnocrazie. Non c’è bisogno d’essere linci per accorgersi che è ciò che avviene sotto i nostri occhi. Succede dappertutto, dicono coloro che vogliono minimizzare il nostro problema e consolarsi guardando gli altri. Ma non è affatto così. Certamente non è così nella misura nostrana.

A conclusione d’una settimana quirinalizia degna almeno d’un paragrafo di diritto costituzionale dedicato all’implosione della democrazia, abbiamo udito tante invocazioni al ritorno della politica come antidoto al disincanto (per non usare più forti espressioni) dei cittadini nei confronti dei loro rappresentanti e della (non) politica ch’ essi hanno messo in scena. Giusto! Ma, la malattia non si cura con tante parole, parole su parole, parole in polemica con altre parole. Scatole vuote.

Tutti sono capaci di parlare, per esempio, di Europa, atlantismo, solidarietà e uguaglianza, donne, disagio sociale, crisi occupazionale, crisi demografica, emergenza ambientale, evasione fiscale per non dire niente e, magari, per scansare i problemi concreti perché ci sarebbe sempre un “ben altro”. Per rianimare la democrazia e rendere possibili convergenze, accordi, alleanze, in altre parole politiche produttive di effetti, in questo momento la prima cosa da fare è tacere un poco.

Tutti sono, più o meno, capaci solo a parlare. Difficile è riempire le scatole vuote con qualcosa che faccia dire: guarda, guarda, c’è qualcuno che sa e vuole fare! E da lì partire per riannodare i fili, per riporre speranze nella democrazia. Più si parla e meno si fa, più cresce il distacco, la noia, l’avversione. L’eccesso di pseudo-informazione in mano ai soliti esperti di cose quirinalizie e ai soliti “opinionisti” che hanno riempito fino alla noia i media in questi giorni ha mostrato, con la nausea che ha provocato, il male che s’ annida nelle troppe parole. Sarete giudicati, dice il Siracide, in base alle parole superflue che avrete pronunciato.

Ma la più dura è la sentenza del Cristo rivolta ai farisei: “Ogni parola inutile che gli uomini diranno, ne renderanno conto nel giorno del giudizio, poiché in base alle tue parole sarai giustificato e in base alle tue parole sarai condannato”. Ora, un poco di silenzio, di concentrazione e serietà. Il modello siano le poche, perfette, asciutte parole tanto estranee al vociare di questi giorni, che il presidente Mattarella ha pronunciato nel momento solenne e inconsueto in cui, in solitudine davanti al popolo italiano, ha chiarito perché, contro le sue personali intenzioni e per senso di responsabilità, ha ritenuto di doversi piegare alla cogenza d’una situazione che non consentiva alcuna scelta. Impariamo da questa sostanza e da questo stile.

la Repubblica, 1 febbraio 2022

Nato a San Germano Chisone (To) il 1° giugno 1943. Laureato a Torino, Facoltà di Giurisprudenza, nel 1966, in diritto costituzionale, col professor Leopoldo Elia.

  • Professore di diritto costituzionale e diritto costituzionale comparato alla Facoltà di Giurisprudenza e alla Facoltà di Scienze politiche dell’Università di Sassari dal 1969 a 1975.
  • Professore di diritto costituzionale comparato alla Facoltà di scienze politiche dell’Università di Torino dal 1975.
  • Professore di diritto costituzionale alla Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Torino, dal 1980 al 1995.

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