L’ORRORE OLTRE IL MURO

14 Dic 2021

Gustavo Zagrebelsky Presidente Onorario Libertà e Giustizia

La barriera a Sabbiuno di Paderno, sulle colline bolognesi, costruita in memoria dell’eccidio nazista del 1944 ci ricorda l’abisso morale che separa vittime e carnefici

Evocando tragedie lontane davanti alla nostra coscienza, poniamo domande a noi stessi. Altrimenti le rievocazioni scadrebbero a spettacoli insulsi. Perfino l’orrore può diventare spettacolo. In chi non ha partecipato e visto uccidere con i suoi occhi e udito urlare con le sue orecchie, la ripetitività può certo ingenerare ogni volta raccapriccio e sdegno; alla lunga, però, è naturale che subentrino assuefazione e indifferenza. Dai sentimenti che presto svaniscono dobbiamo far nascere domande fondamentali e durature, e dobbiamo interrogare non coloro che allora furono vittime e carnefici, ormai tutti morti e muti, ma proprio noi stessi che siamo chiamati a vivere e testimoniare per oggi e domani. Sappiamo che anche noi, i nostri figli e i figli dei loro figli potremmo diventare un giorno vittime o carnefici. Ciò che è avvenuto una volta non c’è ragione che non possa avvenire altre volte ancora. Interrogandoci, possiamo sperare che dal grande male possa nascere almeno un poco di bene che ci renda migliori.

Siamo su questa collina di Sabbiuno di Paderno che abbraccia la dolcezza dei colli bolognesi e, insieme, l’orrore di tanti anni fa. Sono settantotto anni, di questi giorni, che i nazifascisti fucilarono un centinaio di persone – la più giovane aveva 17 anni – facendone rotolare i corpi giù da questo calanco, morti e moribondi gli uni sugli altri, dove fino alla primavera stettero insepolti a decomporsi. Non tutti furono contati e poterono essere identificati. Fuor di retorica, questo è uno dei luoghi sacri della nostra storia: sacro nel duplice senso della parola che indica venerazione ed esecrazione. Ciò che queste stragi dicono e come ci interrogano è il compito del ricordo in nome del quale siamo qui convenuti per pagare il debito di riconoscenza verso chi ha messo in gioco la vita per la libertà di cui godiamo.

Ragioniamo a partire da questo grezzo e freddo muro. Tra i memoriali delle stragi di quegli anni che hanno insanguinato queste terre, è tra i più espressivi e, soprattutto nella sua essenzialità, il più conturbante. L’opera di Letizia Gelli Mazzucato e del gruppo di “Città nuova” divide il campo in due: si vorrebbe che chi sta di qua non veda chi sta di là. Si dà e si riceve la morte ciecamente, senza riconoscersi come esseri umani. Le vittime hanno le spalle al baratro che li aspetta per inghiottirle, non sono con le spalle al muro da cui guardare gli assassini; i loro occhi sono aperti ma non scorgono da chi viene la morte. Non c’è annuncio di morte che contenga una motivazione; c’è solo la nuda morte. Di fronte c’è un muro inerte interrotto solo dalle nove bocche delle mitragliatrici che, in serie, sporgono da strette feritoie. Queste canne d’acciaio emettono sventagliate senza bisogno di mirare alle vittime, una per una, e sono l’unico collegamento tra il di qua e il di là, tra il mondo della vita che sparisce, e la morte che incombe. L’idea che questo memoriale trasmette è la morte nell’anonimato: Nacht und Nebel , notte e nebbia, dove scompare il volto degli assassini e il nome degli assassinati. È la morte che non lascia traccia in chi la dà e in chi la riceve. Qui c’è molto su cui riflettere.

Forse arriveremmo a questa conclusione: man mano che si scende dalle parole agli atti, dagli ordini all’esecuzione, dai programmi all’attuazione, dalle ideologie e dalle filosofie alla messa in opera, il velo dell’irriconoscibilità e, quindi, dell’irresponsabilità si fa spesso. Ogni regime della spietatezza mira a questo scopo: privare di anima i propri agenti e le proprie vittime trasformando i primi in ultimi anelli d’una catena di comando dove c’è solo ubbidienza; i secondi, in meri numeri inerti. Non devono vedersi; non devono parlarsi. All’inizio della catena non ci si abbassa ad atti disumani; alla fine, le mani che azionano il gas venefico nei campi di sterminio o che azionano la mitragliatrice sul terreno delle esecuzioni non sono vere mani, ma protesi insensibili. I processi ai grandi criminali politici (Norimberga o Gerusalemme, ad esempio) ci mostrano proprio questo: i capi rivendicano di non essersi “sporcati le mani”; i gregari di essere stati solo strumenti nelle mani dei capi e, alla fine, d’un capo solo al vertice, il capro espiatorio. Buoni padri di famiglia, allevatori di canarini o suonatori di violino: scissione delle coscienze, dunque. Scissione non sempre ugualmente facile. In alto, più facile perché i capi e gli ideologhi si nutrono di parole ch’ essi pronunciano con leggerezza; in basso, al momento pesante della esecuzione, più difficile quando si è a tu per tu. Sappiamo che quel momento è problematico in tutti i regimi totalitari; sappiamo di casi, sia pure sporadici, di ribellione agli ordini impartiti; sappiamo che, per evitare i rischi della ripugnanza, i reparti incaricati delle esecuzioni erano scelti tra i più fanatizzati dalla propaganda ed erano inebetiti dell’uso massiccio di droghe e di alcol. Bisognava evitare i rapporti a tu per tu con le loro vittime. Possiamo dire che, a parte i sadici e i malati mentali, l’orrore non è facile da sostenere quando ci si trova esseri umani di fronte a esseri umani. Al condannato a morte si mette il cappuccio o si bendano gli occhi non tanto perché non veda quando arriva il momento fatale, ma piuttosto per la vergogna d’essere veduti quando si diventa assassini. È precisamente ciò che dice questo muro con tanta gelida eloquenza.

Le cose non andarono così. Il muro non c’era. Il muro è un’interpretazione che dice della vocazione dei tempi moderni per la cecità della violenza e della morte. Lo sguardo che ci scambiamo può anche essere carico d’odio, ma è pur sempre un rapporto. La morte data e subita senza un rapporto è una delle supreme prestazioni della tecnologia: meraviglia e ripugnanza sintetizzata dall’enigmatica parola greca deinòs che indica la natura mista e contraddittoria degli esseri umani, una parola di cui non abbiamo l’equivalente nella nostra lingua e che, per essere tradotta, richiede un giro di parole. La stessa cosa riguarda le opere degli uomini. Se vogliamo evitare lo sguardo frigido e disumanizzante della tecnologia dobbiamo salvaguardare – diciamo così – i rapporti caldi, nelle parole che diciamo e negli atti che compiamo. Simpatia, etimologicamente, significa capacità di provare le stesse emozioni che provochiamo negli altri con le nostre parole e con le nostre azioni. Se non simpatia, almeno tolleranza e disponibilità a convivere con chi, per qualche motivo, ci appare diverso da noi.

Simpatia e tolleranza sono virtù che, rispetto ad altre che possono essere coltivate solitariamente (l’onestà, la morigeratezza, la generosità, il coraggio, la sincerità, ad esempio), hanno questa caratteristica: sono virtù reciproche. Non possono esistere se anche gli altri non le coltivano ugualmente. Io posso essere tollerante verso di te solo se anche tu lo sei ugualmente verso di me. Altrimenti, tollerando la tua violenza commetto un crimine verso me stesso, rinunciando a difendere le mie opinioni, il mio modo di vivere, la mia stessa vita. Senza reciprocità c’è il muro contro muro, cioè lo scontro distruttivo che conduce alle mitragliatrici. Qui troviamo la radice perenne della nostra Costituzione che è il documento della pacifica nostra convivenza e della condanna d’ogni sopraffazione. Essa è per questo motivo antifascista, in quanto il fascismo è ideologia che giustifica la violenza. Non solo: essa condanna le parole e gli atti che mirano a offendere, che alimentano l’ostilità, che impediscono la comprensione reciproca, che creano muri invalicabili: in breve, è conforme alla Costituzione la condanna d’ogni forma d’intolleranza. Ma lo è altrettanto l’intolleranza nei confronti degli intolleranti. Sia pure come extrema ratio.

Ritorniamo al muro da cui escono le canne che mitragliano. Da esso ci viene una parola di verità. Se non ci si ascolta e non ci si parla, se si rifiuta di guardarsi negli occhi gli uni con gli altri, se ci si attesta su fanatismi irrazionali e irremovibili, se si agitano fantasmi, il pericolo per tutti è lì, quello lì.

la Repubblica, 7 dicembre 2021

Nato a San Germano Chisone (To) il 1° giugno 1943. Laureato a Torino, Facoltà di Giurisprudenza, nel 1966, in diritto costituzionale, col professor Leopoldo Elia.

  • Professore di diritto costituzionale e diritto costituzionale comparato alla Facoltà di Giurisprudenza e alla Facoltà di Scienze politiche dell’Università di Sassari dal 1969 a 1975.
  • Professore di diritto costituzionale comparato alla Facoltà di scienze politiche dell’Università di Torino dal 1975.
  • Professore di diritto costituzionale alla Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Torino, dal 1980 al 1995.

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